Pallagrello, Casavecchia e Caprettone del Vesuvio sono i tre vitigni autoctoni della viticoltura campana, dalle grandi potenzialità ancora non completamente espresse, che sono stati protagonisti alcune settimne fa di Campania Felix, primo incontro del ciclo “Autoctoni a Milano”, ideato e organizzato da Winedrops.
Winedrops, realtà specializzata nella ricerca e nella commercializzazione di vini provenienti da uve originarie delle varie regioni italiane, opera dal 2012 nel settore della distribuzione di vini con l’innovativa formula del conto vendita, coinvolgendo a oggi circa 50 cantine di tutta Italia con prodotti autoctoni e con una rete di altrettanti clienti professionisti della ristorazione; tra i suoi obbiettivi c’è soprattutto quello di riuscire a offrire ai propri Clienti-Operatori, vini indigeni monovarietali.
“Con questa iniziativa, ha spiegato Carlo Schettino, titolare di Winedrops, vogliamo offrire la giusta visibilità a vitigni poco noti e alle Cantine che li coltivano, ricavandone delle vere e proprie perle della vitivinicoltura italiana; le tre uve che abbiamo presentato, attraverso la degustazione di cinque vini, costituiscono quindi la prova concreta della ricchezza del nostro panorama ampelografico, dalla quale può partire la definitiva affermazione dei vini italiani anche a livello internazionale. La rassegna “Autoctoni a Milano” è destinata a dare vita a un percorso di esplorazioni che si snoderà un po’ alla volta per tutte le regioni d’Italia”.
Due le aziende campane ad Autoctoni a Milano
Nel corso della presentazione è stato possibile degustare le produzioni di due Aziende, giovani ma con radici e valori ben piantati nei rispettivi territori: Cantina di Lisandro, situata alle falde del Vesuvio, in provincia di Napoli, con una storia centenaria alle spalle e la giovane Casa Setaro, i cui locali sono ricavati nella roccia vulcanica del Vesuvio, dove temperatura e umidità sono costanti tutto l’anno; due cantine accomunate dal desiderio di affermarsi attraverso la produzione di vini di eccellenza.
Il vitigno Pallagrello
Il Pallagrello è un vitigno con due varietà: a bacca bianca e a bacca nera. Secondo la versione prevalente, il suo nome deriva dalla forma perfettamente sferica degli acini, simili a piccole palle, ovvero “pallarelle”. Secondo altri, il nome proviene dal graticcio, la “pagliarella”, sul quale i grappoli venivano posti ad appassire.
Nell’Ottocento il Pallagrello era reputato tra i vitigni più pregiati della regione; purtroppo però, all’inizio del secolo scorso le sue vigne furono drammaticamente danneggiate dalla fillossera, che ne provocò la rapida scomparsa e il successivo oblio, per molti decenni: nonostante i suoi pregi, il Pallagrello fu per decenni utilizzato come uva da taglio. La sua nuova valorizzazione è iniziata solo nella metà degli anni Novanta.
Il Pallagrello è vitigno vigoroso e fertile, ma al tempo stesso poco produttivo perché i suoi acini sono piccoli e leggeri. Tradizionalmente era allevato a raggiera, ma i vigneti odierni, a spalliera, sono più razionali.
Il Pallagrello bianco ha un grappolo cilindrico e alato, abbastanza piccolo; anche l’acino è piccolo, di forma rotonda e di colore giallo-verde. Arriva a maturazione tra la seconda e la terza decade di settembre, con buona resistenza alla botrytis se non viene troppo ritardata la raccolta.
Il grappolo del Pallagrello nero invece è piccolo, cilindrico, senza ali e abbastanza spargolo. L’acino è piccolo, sferico, con buccia spessa di colore blu nero. L’epoca di maturazione cade di solito tra la seconda e la terza decade di ottobre.
Il Pallagrello dà origine a vini di spiccata tipicità, con media alcolicità, con acidità equilibrata e gusto ampio, abbastanza tannico ma non particolarmente adatto all’invecchiamento.
Il vitigno Casavecchia
Il vitigno Casavecchia, diffuso soprattutto in provincia di Caserta, trae il proprio nome, secondo tradizione, dal fatto che fu scoperto in un vecchio rudere – ’a casa vecchia – ove ne fu rinvenuto agli inizi del ‘900 un vecchio ceppo sopravvissuto alle epidemie di oidio e fillossera.
È possibile che coincida con l’uva del vino Trebulanum, forse proveniente dall’insediamento di Trebula Balliensis (Treglia, frazione di Pontelatone), citato da Plinio il Vecchio nel XIV libro della Naturalis Historia e bevuto dai legionari dell’antica Roma.
Il Casavecchia ha un grosso e lungo grappolo spargolo, con acini dalla buccia rossa e scura, quasi nera.
I vitigni danno origine alla doc “Casavecchia di Pontelatone”, al cui vino, nelle tipologie “Rosso” o “Riserva”, queste uve devono contribuire per almeno l’85%, mentre il restante 15% è conferito da cultivar rosse approvate dalla Regione Campania.
L’affinamento per la tipologia “Rosso” deve essere di almeno due anni, di cui almeno uno in legno, mentre, per la tipologia “Riserva”, si prevede un affinamento di tre anni, di cui almeno 18 mesi in legno.
Di colore rosso rubino più o meno intenso, tendente al granato con l’invecchiamento, al naso il Casavecchia si presenta intenso, persistente, caratteristico; al palato è secco, sapido, giustamente tannico, morbido e di corpo.
Il vitigno Caprettone del Vesuvio
Il Caprettone del Vesuvio deve il proprio nome, secondo la versione più diffusa, alla forma del grappolo, simile alla barbetta della capra. Oppure, in seconda ipotesi, al fatto che i suoi primi coltivatori fossero pastori, per l’appunto di capre.
Uva a bacca bianca, è stata confusa, fino a tempi molto recenti, con il più celebre vitigno Coda di Volpe; solo nel 2014, dopo approfonditi studi ampelografici corredati da analisi del Dna, la specifica identità del Caprettone è stata scientificamente riconosciuta.
Essendo ricerche solo recentemente portate all’attenzione di produttori ed enti di certificazione, per il momento è molto difficile stabilire una stima precisa delle superfici destinate a Caprettone. Solo nei prossimi anni sarà possibile avere un quadro almeno in parte attendibile, con un aggiornamento dei registri di vigna e cantina che preveda voci separate per la Coda di Volpe e il Caprettone.
Tra quelli coltivati sulle pendici del Vesuvio, il Caprettone è il primo vitigno in ordine di tempo ad essere vendemmiato: a seconda delle annate, anche prima dalla festa di San Gennaro (19 settembre), affinché se ne preservi il corredo acido accumulato: nella prima quindicina di settembre il grado zuccherino è al suo punto migliore e anche l’acidità è ottimale per garantire un bagaglio aromatico complesso e un buon nerbo.
La vite ha foglia grande, di colore verde chiaro; grappolo spargolo di media dimensione; acino piccolo e regolare; la pianta è di media produttività. Il vino che ne deriva, di colore paglierino scarico, possiede aromi delicati di gelso, albicocca e ginestra.
Morbidezza, mineralità e struttura consentono notevoli possibilità di abbinamento con piatti locali: insalata di mare, polpo in “cassuola”, minestra maritata, carni bianche, zuppe di legumi; è Ideale con il baccalà di Somma Vesuviana
La Denominazione in cui il Caprettone è presente prevede che per le tipologie Bianco e Lacryma Christi Bianco sia obbligatorio utilizzarlo per almeno il 35%, in assemblaggio con Falanghina, Greco, Verdeca.
Poiché le vendemmie da cui sono stati ricavati vini prodotti da Caprettone in purezza sono ancora molto poche, è ancora difficile definirne un profilo organolettico univoco; è però già possibile individuare la capacità di questa cultivar di acquisire, con il tempo, il carattere fortemente affumicato e minerale dei suoli vulcanici sui quali cresce.