Raggiungo, animato da forte curiosità, la Cantina Orsolani a San Giorgio Canavese, sulla collina storica di Caluso, in provincia di Torino, dove i terreni di origine morenica, sabbiosi, a pH acido, spiegano la tipica sapidità dei vini. Quì, il vitigno simbolo è l’Erbaluce, allevato nella classica pergola. Orsolani è un’azienda di riferimento, produce dal 1895 (cinque generazioni) il vino simbolo di queste colline. Gian Luigi, titolare dell’azienda, ingegnoso e lungimirante, si batte su più fronti per valorizzare questo vitigno autoctono. Lo affianca il padre, Francesco, orgoglioso e combattivo, uno dei pionieri della spumantizzazione dell’Erbaluce. Scambio un po’ di curiosità con entrambi e che sorprese!.
Gian Luigi, partiamo dal passato: quando hai pensato di diventare vignaiolo?
Beh, subito dopo il servizio militare. Era il 1988, avevo 22 anni. Tornato a casa, non avevo più voglia di proseguire gli studi universitari e così avevo pensato di lavorare qui in cantina, di avvicinarmi al lavoro di famiglia. Non doveva essere ‘per sempre’; mi sono detto dai proviamo, inizio e poi ci sono rimasto fino a oggi. Subito, ricordo che mi si presentò l’occasione di frequentare un corso di avvicinamento al vino e questo mi servì per conoscere nuove persone che poi sono diventate amiche. Devo ammettere che da lì è partita la scintilla; quel mondo cominciava a piacermi e mi sono buttato.
Col senno di poi… rifaresti la stessa strada?
Ma si, direi di si. Se ci guardiamo attorno, notiamo come il comparto agricolo sia cresciuto negli anni come importanza e come valore. Ricordo al primo Vinitaly, era il 1989, i produttori presenti erano tutti avanti negli anni, parlavano di sconti, di prezzi, di trattative. Era ancora il tempo del vino sfuso in cestelli, dei bottiglioni, del produttore contadino che andava in vigna tutte le mattine. Poi nel giro di poco tempo, lo scenario attorno al vino era cambiato. Ricordo che cominciavano ad interessarsi di vigneti e di cantine gli stessi divi del cinema, della televisione, della canzone e uomini dello sport. Ornella Muti era stata forse la prima “vignaiola” a gestire un’azienda agricola in Piemonte, a Ovada. Una passione che contagiò il mondo dei vip in tanti territori italiani. Questo trend durò qualche anno. Vinitaly è oggi diventata una passerella di moda. Questo è un mondo che è cresciuto, che dà soddisfazioni; è modificato anche il concetto del vino, è qualcosa che investe la sfera dei sensi e coinvolge tutti, giovani generazioni e persone mature; è un qualcosa che abbraccia anche il legame tra un territorio e le sue caratteristiche con il lavoro di chi lo coltiva
Quindi, tu affermi che, grazie a certi personaggi famosi, il vino sia uscito da una dimensione prettamente contadina e sia stato nobilitato
Beh, che sia stata una naturale evoluzione del comparto o l’ingresso di alcuni personaggi famosi in questo mondo non te lo so dire. Sicuramente, la loro presenza è servita come acceleratore di attenzione, come attrattore di interesse
A proposito, credo che un grande passo avanti di questo mondo sia dovuto al miglioramento delle tecniche di produzione
Certamente. Le nuove tecniche di lavorazione delle vigne, le tecnologie innovative, gli studi e le ricerche degli ultimi anni hanno portato ad avere un’agricoltura più ragionata. Negli anni passati era tutto finalizzato al raccolto, al quantitativo da portare sulla bilancia e da trasformare in vino. Oggi il paradigma è cambiato, non si fa solo quantità ma si guarda alla qualità del prodotto da portare in bottiglia. Ricordiamo tutti che al ristorante di qualche decennio fa il cameriere chiedeva soltanto ‘bianco o rosso???’ (riferito al vino da abbinare al pasto); poi si è passati ad una specificazione più puntuale (Barbera piuttosto che Dolcetto o Erbaluce piuttosto che Arneis); oggi accanto al menu c’è una carta dei vini con centinaia di etichette di tutto il mondo. È stato fatto un grande passo avanti, molto positivo; è cambiata la linea di pensiero
Gian Luigi, a proposito di carta dei vini, se dovessi sceglierne uno nella carta della tua cantina, per quale il cuore batte più forte?
Bene, non ho dubbi, è ‘La Rustia’. È il nostro vino simbolo, quello che ha fatto crescere, se vogliamo, l’immagine della Cantina stessa. È da quasi 40 anni che la si produce. Un bianco secco che proviene dai vigneti di collina, da una particolare selezione, per cui vengono scelte solo le uve Erbaluce che, a completa maturazione presentano una coloritura dorata “arrostita dal sole”. La Rustia, esprime al meglio le caratteristiche del vitigno che nel bicchiere si caratterizza per le note di freschezza e sapidità; è espressione del territorio morenico su cui vengono coltivate le viti. È l’amore di famiglia. Primo anno di produzione 1985
E il vino che rappresenta un po’ la sfida, quello su cui punta la Cantina, oggi?
Oggi è lo Spumante, il Metodo Classico, il vino che ci dà le maggiori soddisfazioni. La sfida sta nel fatto di non voler percorrere più la ‘strada champagnista’ di Chardonnay e Pinot nero, ma di affermare e valorizzare le bollicine da vitigni autoctoni. In questo senso l’Erbaluce può essere testa di serie di un eventuale campionato degli Spumanti nazionali, proprio perché possiede tutte le caratteristiche (capacità di diventare minerale, concentrato di sapidità, la freschezza del vitigno stesso) per diventare un grande Spumante che possa invecchiare a lungo nel tempo. È un percorso emozionante che ci apre al futuro, pur conservando nel cuore il nostro bianco storico
Ma voglio tornare, un momento, alla Rustia, com’è nato questo vino del cuore
A questo punto dell’intervista interviene nel discorso Francesco Orsolani, papà di Gian Luigi, che sta al tavolo con noi ed entra nella narrazione.
Forse era l’anno 2000, io e Gian Luigi eravamo stati invitati al Seminario Veronelli. Il direttore di allora, a un certo punto, riferisce che alcuni ampelografi avevano associato l’Erbaluce al ‘Fiano di Avellino’. Si stabilisce un confronto tra la Cantina Orsolani e la Cantina ‘Feudi di San Gregorio’ di Avellino. ‘Il nostro vitigno – affermano Feudi di San Gregorio – è arrivato dalla Grecia attraverso vecchie imbarcazioni al Porto di Napoli’. Quando mi era stata concessa la parola avevo affermato questo: ‘noi non sappiamo di certo come l’Erbaluce sia arrivato in Canavese, ci sono leggende in proposito. Pare che siano stati i Romani, però trovo bellissimo pensare che quelle barche approdate al Porto di Napoli, avessero poi percorso il mare fino al Porto di Genova e, attraverso la ‘Via del sale’, fatte arrivare alcune barbatelle fino a noi. E qui entra in scena l’uva del Passito, quella migliore, che si produce da sempre da noi; era abitudine di famiglia offrire un bicchierino di Passito all’ospite in senso di gratitudine.
La domenica, all’uscita della Messa, era tutto un chiacchiericcio, ci si incontrava tutti, si parlava di grano, di vino, di vendemmie, e qualcuno esclamava ‘la mia a l’è tuta rustìa’, ‘la mia è tutta arrostita dal sole’: si riferiva all’uva della sua vigna, quella del Passito. Da lì è partita l’idea di produrre un ottimo bianco, quasi una sfida in Piemonte, terra di rossi e polenta gialla. Ci siamo detti che dovevamo prendere l’uva della Rustìa: se la migliore serve per fare il Passito, allora perché non partire da quella per fare un ottimo bianco, sacrificando qualche filare più ‘buono’? Il nostro cantiniere, ricordo, scrisse col gesso sulla botte ‘Rustìe’ per indicare che quello sarebbe diventato l’Erbaluce migliore. Era nato il vino del cuore: ‘Rustìa’.
Francesco Orsolani è un uomo di forte tempra, orgoglioso, competente, un grande Maestro di vita e di lavoro. La sua è stata e continua ad essere una vita dedicata al vino e alla vite, di cui è fortemente innamorato. Conserva una lucidità ed un acume sensazionali. Ricordi antichi che ascolto con immenso piacere e, a questo punto, gli rivolgo ancora qualche domanda.
Francesco, che ricordo ha di papà, un uomo importante nella sua vita?
Un uomo di un’onestà infinita che ha dedicato questa vita al vino e mi ha insegnato un mestiere che ho amato e di cui sono ancora innamorato. Sono stati i miei nonni che hanno dato inizio a questa storia fantastica e ci hanno tramandato il concetto dell’onestà di pensiero che io spero di portare avanti nel migliore dei modi
Si, questa storia del vino della famiglia Orsolani inizia nell’Ottocento, il viaggio nel Michigan del nonno e il ritorno a San Giorgio, l’apertura della “Locanda Aurora”… qui comincia la favola dell’Erbaluce. Lei ha conosciuto nonno Giovanni, capostipite e fondatore della Cantina?
No, non l’ho conosciuto ma, per sentito dire, ho saputo che era un uomo semplice, di grande onestà che faceva il suo lavoro con grande passione, orgoglioso, che ci ha lasciati un’eredità che abbiamo accolto allo stesso modo, valori eccezionali che sono serviti ad avere una continuità che altri, meno fortunati di noi, non hanno avuto.
Francesco, lei si ritiene un uomo fortunato?
Certo e spero che Gian Luigi, mio figlio, lo sia anche e possa proseguire questo cammino bellissimo
Ascoltiamo Gian Luigi, allora, e parliamo di territorio. Ti chiedo un giudizio sulla viticoltura del Canavese
Al di là delle pratiche viticole, possiamo definire questo un areale dove non è stato modificato il sesto d’impianto. All’inizio degli Anni 2000 avevo io stesso deciso di impiantare le viti passando dalla pergola al filare, e come me altri produttori, allo scopo di migliorare il processo. Il filare garantiva una quantità di ceppi per ettaro maggiore, una produzione minore per pianta, una migliore qualità attesa; sembrava dovesse essere la scelta giusta in quel momento. Ma l’Erbaluce è un vitigno difficile che mal si adatta al filare, produce poco, si è sempre alla ricerca di un sistema di potatura adatto alla pianta, quindi un adattamento complicato all’allevamento a spalliera. C’è stato un ripensamento negli anni e la linea di pensiero è stata quella di tornare all’allevamento a pergola, complice il fattore climatico, la siccità degli ultimi anni, che garantisce un ombreggiamento sottostante di cui beneficia la parte radicale, un po’ di umidità in più che dà al vino quella freschezza che oggi è molto richiesta dal mercato. Invece, la metamorfosi più evidente, sul territorio, è quella che riguarda i vignaioli. Accanto ai produttori storici canavesani oggi si fanno spazio nuove realtà, molte condotte da giovani. Io sono stato presidente del Consorzio otto, nove anni fa e i produttori consorziati eravamo una ventina, oggi siamo più di sessanta. I giovani stanno portando stili diversi, innovazione, e questo è segno di una vitalità senza precedenti. Posso anche sottolineare che a Carema, ancora Canavese, ai confini con la Valle d’Aosta, si è passati da due a otto produttori consorziati, tutti giovani, un bel salto in avanti che fa ben sperare. Si respira aria nuova.
Gian Luigi, ora vorrei portarti nelle Langhe: può il Canavese diventare Langa, dal punto di vista della visibilità enologica?
Io partirei da un concetto ben preciso: ognuno faccia la sua corsa! Le Langhe hanno fatto un balzo molto evidente, tutti diciamo che ci siano riusciti (può darsi che potessero fare anche meglio, però), ma penso che ogni territorio debba avere la propria identità. Io voglio soffermarmi su questo presupposto e credo che anche il nostro territorio potrà nel prossimo futuro migliorarsi, non dobbiamo avere la presunzione di copiare dagli altri e il futuro ci sorriderà, spero, però, in tempi brevi
Per un momento, immagina di sederti a tavola: cosa ne pensi del binomio cibo-vino dello stesso territorio?
Io, come presidente dell’Enoteca Regionale, andando a Torino, mi ero accorto che, come cucina torinese, ci venivano proposti, i tajarin, la carne cruda battuta al coltello, i ravioli del plin, e allora mi ero chiesto: ‘ma come mai! Questa non è cucina torinese, è albese, tipica delle Langhe’. Evidentemente gli albesi avevano avuto la lungimiranza, l’intelligenza di trasferire nel capoluogo piemontese le loro ricette. E quindi mi sono detto: ‘perché non portiamo la nostra cucina canavesana, tanto più che siamo in provincia di Torino? Ma facendo due conti sono arrivato alla conclusione che in fondo non avevamo tutte queste specialità da proporre, se escludiamo il ‘Salam ‘d patata’ o il ‘Sanato del Canavese’. Quindi ti rispondo proponendo sicuramente il riso: il risotto con punta di asparagi si abbina meravigliosamente all’Erbaluce (La Baraggia con Moncrivello in provincia di Vercelli e Roppolo in provincia di Biella con Viverone, in provincia di Torino, sono terre del riso e appartengono al territorio di produzione dell’Erbaluce [N.d.r]) e poi abbiamo un altro prodotto tipico, il ‘Salam ‘d patata’, che facciamo solo noi e, ancora, voglio ricordare il ‘Sanato del Canavese’, la nostra carne di vitello da latte allevato sulle sponde del lago di Viverone, né battuta al coltello, né tagliata, di una dolcezza assoluta, poco sapida, tanto il sale glielo fornisce l’Erbaluce. Infine, Il ‘Fritto misto’, uno dei piatti tipici e più ricercati del Canavese e qui vorrei suggerire un abbinamento con un vino canavesano, il ‘Brachetto secco’ che fanno solo in pochi.
Siamo passati dalla vigna alla cantina, abbiamo percorso il territorio, ora guardiamo al mondo: Si dice che l’”Erbaluce è un vitigno che si apre al mondo”. Puoi allungare il significato di questa frase?
Secondo me, i vitigni quando sono portatori di un ‘qualcosa’ per il territorio sono interessanti per il mondo. Partiamo da qui. E parlando dell’Erbaluce, parliamo di un vino che è portatore di freschezza e di sapidità, caratteristiche che danno un carattere di ‘unicità’ nel panorama vitivinicolo, che si aprono al mondo e il mondo se ne accorge. Bisogna però accompagnare il vino con una narrazione, saperlo prendere per mano, farlo assaggiare a questo mondo e farci amare. Voglio chiudere con un interrogativo anch’io, però: ‘Se l’Erbaluce si apre al mondo, il mondo si aprirà all’Erbaluce?’. Noi ci crediamo.
Con questa suggestione davvero entusiasmante, ringrazio Gian Luigi Orsolani per il suo squisito senso di ospitalità e per questo meraviglioso racconto. Però, vorrei chiudere scavando nel mondo dei sogni. Che sia il primo o l’ultimo dei cassetti, quando lo aprirai quale sorpresa vorresti trovare?
Ti posso solo dire, sia io sia mio padre, che siamo molto contenti di questo percorso che ci condotto fino a qui; abbiamo raggiunto obiettivi importanti. Se pensi che la Guida del Gambero Rosso ci ha riconosciuto la ‘stella’ dopo numerosi ‘tre bicchieri’, se vai a fondo, ti rendi conto che siamo solo tre i produttori ad averla ottenuta in Piemonte, al di fuori del Nebbiolo e della Barbera: i Vigneti di Walter Massa, sui Colli Tortonesi, Villa Sparina sulle Colline di Gavi e noi in Canavese. Noi tre, però, abbiamo dovuto aggiungere oltre alla credibilità del vitigno anche la nostra, quella di produttori, una fatica doppia rispetto a chi produce Nebbiolo, vitigno che brilla già di luce propria. In quel cassetto si nasconde un sogno e una speranza: che in tutte le carte dei vini dei ristoranti piemontesi, a maggior ragione ora che la Regione Piemonte lo ha riconosciuto ‘Vitigno dell’anno 2023’, ci fosse un Erbaluce. E se ti riconosce il Piemonte ci riconosce il mondo.
E, a proposito di Spumante, a questo punto, Francesco Orsolani si alza e mi porta con sé per mostrarmi la prima bottiglia di Spumante, annata 1968, da vitigno Erbaluce e mi racconta una storia particolare: “Eravamo al Ristorante Tre Re di Castellamonte, mi dice, era il 29 settembre del 1969. Avevo organizzato una serata apposta per presentare questo nuovo vino fatto dalla nostra Cantina ad una platea di amici, produttori e persone influenti del territorio. Alla fine mi sono fatto apporre un autografo sull’etichetta. Ora la conservo come un cimelio. È stato l’inizio di un’altra straordinaria storia”.
Padre e figlio, Francesco e Gian Luigi si abbracciano e la scena mi riempie di gioia, mentre saluto e vado via con in bocca un profumo ineguagliabile, quello dell’Erbaluce.