A seguito dell’articolo di Beppe Severgnini sul Corriere della Sera, la mente vola al passato (semplice, genuino, ma bello) ma con uno sguardo al futuro. La creazione del “Museo dei Palloni Smarriti”: suggestione o realtà?
Il 31 marzo scorso, sul Corriere della Sera, è apparso un articolo di Beppe Severgnini: “Ad Ascoli Piceno i palloni smarriti di un’Italia che non c’è più”.
Cos’era successo? Nella chiesa di San Tommaso Apostolo, ad Ascoli Piceno, durante il sopralluogo per i lavori di restauro della struttura religiosa, lesionata dal terremoto del 2016, sono stati ritrovati sul tetto qualche decina di palloni da calcio. Una testimonianza storica formidabile. Quel campanile antico che chissà quanti bambini e ragazzi aveva visto giocare nella piazzetta sottostante, ad un certo punto si è ribellato, si è stancato di ricevere sul tetto della chiesa palloni dispersi. Ha voluto “suonare le sue campane” per ricordare a tutti che quei cimeli, ormai sgonfi e scoloriti, ostruivano le grondaie e l’acqua non andava giù.
Palloni vecchi di 50 anni, ma anche dei nostri giorni, visto che la piazzetta ancora oggi è frequentata da ragazzini in cerca di uno spiazzo per tirare calci ad un pallone. Come ribadisce il sindaco di Ascoli Piceno, Marco Fioravanti: “Tra quei palloni, molti erano recenti. Ci sono bambini che si trovano a giocare in piazza ancora oggi. Meno di una volta, ma ci sono”.
Tra i palloni rinvenuti c’è anche quello prodotto in occasione dei mondiali d’Argentina del 1978, pensate. Palloni importanti, ma anche palloni di plastica che sopra quel tetto hanno assistito al gioco dei venti e della pioggia, alla neve e alla grandine, sono stati consumati dal sole… ma che non si sono mai ribellati, neanche ai terremoti.
Palloni eroici che raccontano, nel loro piccolo, storie italiane, popolari, sentimentali… di quell’Italietta pallonara che è scomparsa per sempre. Eravamo tutti Paolo Rossi, ci sentivamo di condividere una felicità che non ci apparteneva, eravamo uniti come in una grande famiglia. E la mattina dopo una vittoria della nostra Nazionale si parlava solo di quello, dei gol di Pablito che aveva rubato il tempo a tutti e l’aveva messa dentro. I bambini, i ragazzini tiravano fuori i loro palloni e via tutti in strada, negli spiazzi di città, addirittura davanti alla chiesa e tanti di quei palloni andavano dispersi tra i Santi del Paradiso.
Anch’io giocavo, ma davanti a casa, in paese: quella saracinesca del magazzino di balle di fieno diventava la porta. Erano i tempi di Gianni Rivera e di Sandrino Mazzola, tempi eroici per la mia generazione. Ci radunavamo in tanti, allora non passavano macchine, solo il fischio del treno della sera, che riportava in paese persone affaticate dopo una giornata di lavoro a Catania, ci faceva capire che si era fatto tardi e che dovevamo rientrare. Tanti di quei palloni andavano a finire sulle tegole di un vecchio magazzino, un’antica cantina, e per recuperarli si rischiava la vita, sui tetti. Quando tornavano a terra profumavano di vino, però. Che bellezza!
Poi, la domenica, il giorno della partita di campionato, all’oratorio. Un giorno importante per noi che ci eravamo preparati tutta la settimana. Palla al centro, 5 contro 5, anche se all’epoca il calcetto non era stato ancora inventato. Palloni modesti, frutto di rinunce, di risparmi, di economie. Anche il parroco ci aiutava, ci veniva incontro; per quel tempo, era molto avanti con le idee. Non si finiva una partita senza che un pallone non finisse nell’orto confinante. Eppure, il lungimirante sacerdote aveva fatto mettere una rete alta per evitare discussioni. Quell’orto, a pensarci oggi, era meraviglioso. Conservava le cose più buone di quel territorio: aranci, limoni, mandarini, qualche filare di vigna vecchia e poi le verdure selvatiche dal profumo intenso, introvabile oggi. Dietro, ancora qualche casetta bassa. C’era la casa del contadino che, dopo un po’, non ne ha voluto più sapere: ci tratteneva tutti i palloni che finivano in quell’orto fantastico e forse lo danneggiavano.
Caro Severgnini lei ha fatto centro, quando ha intitolato “I palloni smarriti di un’Italia che non c’è più”, anzi, ha segnato “un gol da antologia” come diceva il mitico Gianni Brera.
“Quei palloni — bianchi, blu, arancioni, a scacchi, gonfi, sgonfi, coperti di muffa, incrostati di fango — sono il racconto di un Paese dove i ragazzini correvano sulle piazze, i nonni guardavano, il curato bofonchiava ma lasciava fare, l’Italia andava ai Mondiali, e magari li vinceva. Oggi quei ragazzini hanno in mano un cellulare, i nonni guardano la guerra in tv, e sulle piazze italiane vigili e cartelli vietano di giocare a calcio”, leggo, malinconicamente, tra le sue righe.
I palloni del mio oratorio, caro Beppe, si sono smarriti e non sono stati più ritrovati, il campanile della chiesa del mio paese, che guarda il mare e l’Etna, non suona più da diversi anni, perché, anche lì, il terremoto lo ha ferito a morte e nessuno lo sta soccorrendo.
Non so più nulla di quei palloni perduti nell’orto; io sono andato via, nessuno di quelli che sono rimasti sa qualcosa. Però, sono felice lo stesso. Anche se nessuna fotografia li ha ritratti, anche se nessuno ne parla, sono felice perché voglio immaginare che almeno profumano della mia terra, di mandarini e limoni, di quella terra del vulcano più bello del mondo.
Un appello al sindaco di Ascoli Piceno, Marco Fioravanti: “Caro sindaco, perché non creare ‘Il Museo dei Palloni Smarriti, proprio nella sua città, simbolo di un ritrovamento storico, di un tesoro inestimabile? Palloni di tutto il mondo che si incontrano, storie di vita che si intrecciano”. Parliamone.
Fonte Foto Copertina: Corriere della Sera