Mario Ferrara è uno di quegli chef che occupa un posto speciale nel mio cuore. Lo è perché è uno dei primi chef che, a inizio carriera ormai quasi 20 anni fa, ebbi la fortuna di intervistare, ma anche perché da lui portai a cena per la prima volta quella che sarebbe diventata la madre di mia figlia. Nel suo ristorante, lo Scaccomatto, che quest’anno compie 35 anni di vita, ho celebrato anniversari e sere di San Valentino, trovandolo sempre pieno, ben frequentato, e uscendone sempre con l’espressione soddisfatta di chi ha consumato un ottimo pasto. E lo Scaccomatto, in questi 35 anni, è diventato e continua a essere uno dei ristoranti più gettonati sia dai bolognesi che dalla clientela di passaggio, tutti entusiasti della cucina di Mario, da sempre un sapiente mix di tradizione della Basilicata – la terra d’origine dello chef – e vena creativa, a cavallo fra terra e mare, impreziosito da materie prime sempre fresche e di stagione e da un servizio discreto, affabile, professionale senza mai essere pomposo. Una storia, quella dello Scaccomatto, che dal portichetto di via Broccaindosso abbraccia un po’ anche quella dell’alta ristorazione a Bologna.
Mario, 35 anni di Scaccomatto non sono pochi…
“In genere quando si parla di anni si tende a dire che non si sentono. Però di cose ne sono successe in questi 35 anni. Cose ne sono cambiate, anche per fortuna perché la partenza fu disastrosa”.
Disastrosa? Come è possibile per un ristorante che oggi è tra i più quotati in città?
“Era diverso, via Broccaindosso non era la strada pulita e un po’ trendy che è oggi, era una viuzza del centro di Bologna dove dopo una certa ora il passaggio era poco raccomandabile, le prime persone che entrarono qui dentro le dovemmo prendere a braccia e accompagnarle fuori. La clientela non c’era, era del tutto assente. Se i comuni mortali, quando avviano un locale, partono da zero, noi siamo partiti da meno venti, in condizioni assolutamente sfavorevoli. Oggi è tutto migliorato, e anche noi siamo cresciuti, siamo cambiati, ma non è cambiata la nostra filosofia”.
Idee chiare allora e idee chiare oggi?
“Certamente. Lavorare solo col prodotto fresco, seguendo le stagioni. La ricerca negli anni è diventata sempre più maniacale, andiamo noi alla ricerca dei prodotti anche perché mi piace guardare in faccia il produttore quando ho un prodotto in cucina. Chi come me parte e va a lavorare in un luogo diverso da quello di origine è inevitabile che porti con sé delle contaminazioni e che venga a sua volta contaminato da altre cucine. E così nel mio ristorante ho messo un po’ di cucina di casa, un po’ di trasgressione, dei tocchi creativi e qualche influenza dal resto del mondo”.
Quelli che io chiamo i tuoi periodi, come per Picasso….
“Esattamente. Ho avuto il periodo in cui qui in cucina c’erano degli stagisti giapponesi e da loro ho preso spunto per alcuni piatti, come fu il tataki di tonno, ma anche per l’impiego di spezie particolari come lo zenzero o salse della tradizione asiatica come la salsa di soia e la salsa Ponzu. Io davo qualcosa a loro, che era una formazione professionale, un’esperienza nell’ambiente della cucina italiana di cui loro hanno fatto tesoro una volta tornati a casa, ma anche loro hanno trasmesso qualcosa a me, che in qualche modo ha influenzato il mio modo di fare cucina. E lo stesso è stato
successivamente anche nelle altre collaborazioni che ho avuto. Bisogna però anche dire che io quando posso viaggio molto e mi piace lasciarmi contaminare, a condizione beninteso che la contaminazione, la provocazione, abbia un senso e non sia fine a se stessa, altrimenti si rischia di scadere nel ridicolo. Bisogna sempre tenere conto del fatto che un piatto alla fine va mangiato”.
Quindi l’innovazione va bene ma fino a un certo punto?
“Qui dentro abbiamo fatto tantissima sperimentazione, sia come accostamenti che come tecniche di cottura, e anche seguito qualche moda a volte, ma alla fine se si usa un po’ di intelligenza non se ne diventa mai schiavi. Le innovazioni vanno bene ma sono uno strumento per arrivare al fine, non il fine stesso. Una tecnica di cottura nuova ha senso se serve a tradurre in realtà la tua ispirazione del giorno, la tua idea di cucina, non il contrario. Se sei intelligente la tecnica ti aiuta a migliorare le tue idee, e a noi piace pensare di essere intelligenti. A volte invece nella ristorazione capita di vedere idee e tradizioni piegate alla moda del momento e questo non mi piace”.
La contaminazione vale anche nel rapporto con i colleghi?
“A me piace uscire dalla mia cucina e interagire anche con altre realtà del settore. Non sono un mistero lo stretto legame, professionale e di amicizia, che mi unisce a Massimiliano Poggi e che si evidenzia nell’inserimento in carta da parte di ciascuno dei due di un piatto dell’altro:
avere conosciuto Max più di 20 anni fa e avere fatto diventare un’amicizia quello che era un rapporto professionale è stato sicuramente contaminante anche per gli altri colleghi. Oppure nel lungo rapporto di collaborazione con il gelatiere Andrea Bandiera durante il quale abbiamo elaborato ricette e accostamenti anche tra le crudità di mare e il gelato. Era un messaggio di collaborazione tra colleghi. Oggi però vedo che il clima è cambiato, almeno per quanto riguarda molti colleghi: due anni di pandemia e lockdown ci hanno forse resi tutti un po’ più soli, più chiusi in noi stessi. Ricordo prima della pandemia il grande fermento di interazione e collaborazione che c’era in associazioni come TourTlen e che non riesco più a ritrovare, tant’è che sia io che Massimiliano Poggi ne abbiamo preso le distanze. Il messaggio si è perso”.
Ha prevalso l’invidia?
“In questa città capita che qualche collega giudichi male quello che fai, anche se magari lo fai senza disturbare nessuno. Noi il secondo giorno di lockdown eravamo già partiti con l’asporto, una cosa che in seguito hanno fatto praticamente tutti o quasi, ma quel giorno lì i commenti acidi di qualche collega si sono sprecati. Come se avessimo dato fastidio a qualcuno. Di questa idea, l’asporto, devo ringraziare mio figlio Simone”.
Infatti al tuo fianco in questi anni ci sono stati prima tuo fratello Enzo e ora tuo figlio Simone…
“La società con mio fratello (che fino alla pensione nel 2020 gestiva sala e carta dei vini – ndr) è stata qualcosa di bellissimo, per oltre 20 anni ci siamo intesi a meraviglia. Ma senza nulla togliere quella con mio figlio è ancora più bella, perché ognuno di noi ci mette qualcosa di suo, io la mia esperienza, lui quello che ha imparato nella lunga gavetta che ha fatto anche all’estero. Siamo due generazioni a confronto, ognuna delle quali mette nel rapporto il meglio di sé. Simone ha rivoluzionato la carta dei vini, inserendo le etichette naturali, e devo dire che mi stupisce ogni giorno, non pensavo di avere un ragazzo così preparato in casa. Abbiamo tutti e due sete di conoscere, di imparare cose nuove. Io ho fatto un patto, quello di vivere fino a mille anni, per imparare il più possibile, poi se non bastano se ne riparlerà”.
Che cosa in questi 35 anni non rifaresti mai?
“Non c’è nulla che non rifarei. Io sono cresciuto come autodidatta, ho fatto esperienze sul campo, anche attraverso contatti con l’esterno. Quindi rifarei tutto, anche gli errori, perché se sei intelligente dalla corretta lettura di un errore puoi ricavare degli insegnamenti utili. Credo che per un professionista sia importante per certi versi sbagliare, a condizione che si sappia farne tesoro”.
C’è una tua caratteristica, che io chiamo il tuo “rapporto sentimentale” con la cucina: una volta che un piatto esce dalla carta difficilmente lo riproponi
“E’ sicuramente una parte del mio carattere, ha a che fare anche con la stagione, perché è inevitabile. Però una persona come me lo vive in maniera diversa, lo si vede anche nel rapporto con la clientela. Una delle cose che mi fa maggiormente piacere è vedere tra i clienti molti giovani, perché è il segno che abbiamo seminato bene e che il giovane, anziché andare al fast food a mangiare del cibo spazzatura, preferisce una cucina sincera e di qualità come la nostra. Chi viene a mangiare da noi capisce subito cosa c’è nel piatto”.
Le guide però alle volte non raccontano tutto di tè, spesso si fermano a qualche luogo comune e un’immagine di facciata, senza approfondire. Che rapporto hai con le guide?
“Non ho la pretesa che gli altri capiscano tutto di me, forse è anche colpa mia e del mio modo di comunicare. Sicuramente un maggiore approfondimento non guasterebbe. Ma alla fine l’unica cosa per cui sono rimasto davvero male è stato essere uscito dalla Guida del Gambero Rosso, una delle prime in cui ero entrato e che mi aveva segnalato per il rapporto qualità-prezzo. E’ successo che la loro visita è avvenuta d’estate, quando il ristorante chiude e trasloca agli Orti di via della Braina e la formula degli Orti probabilmente non è stata capita”.
Gli Orti di via della Braina: quella del trasloco estivo della location è un’altra cosa in cui siete stati dei precursori
“Senza gli Orti di via della Braina probabilmente oggi non saremmo qui. Durante i due anni di lockdown hanno rappresentato, nella bella stagione, la soluzione per superare il distanziamento sociale, un modo per salvare l’azienda. E poi durante la pandemia ci hanno imitato tutti, l’estate scorsa non c’è stato chef che non abbia creato una propria location estiva. Però gli Orti, anche per la loro collocazione, hanno una formula particolare, e forse non era il contesto ideale per il giudizio di una guida. Ma dalle altre guide abbiamo molte soddisfazioni: grazie alla Guida Michelin per esempio veniamo visitati da parecchi turisti stranieri, la Guida dell’Espresso negli ultimi anni ci ha dato più attenzione, forse perché nel frattempo anche noi siamo cresciuti”.
Chi è oggi Mario Ferrara?
“Un cuoco che sente un po’ il peso degli anni ma ha ancora voglia di guardare oltre l’ostacolo, ha ancora voglia di raccontare la propria storia, di sbattermi anche per il sociale. Credo che la mia cucina abbia ancora tante cose da raccontare, e per questo voglio mettermi in gioco tutti i giorni senza mai sentirmi arrivato. Lo Scaccomatto è stato un punto di partenza, non un punto di arrivo. Non smetterò mai di avere voglia di imparare e di mettermi in gioco, perché questa è la vita che ho scelto e che amo”.