«Da noi, in Appennino, molti lo facevano ma nessuno lo chiamava sidro: era vein ad póm, il vino di mele», racconta Massimiliano Croci. È un contadino e un vignaiolo, l’azienda di famiglia è a Castell’Arquato, nel piacentino. La sua famiglia è originaria dell’alta Val d’Arda, montagne che guardano a Nord, non adatte alla coltivazione della vite: «I più abbienti compravano l’uva a valle per farsi il vino, ma chi era povero, come mio nonno, classe 1898, non poteva, e così faceva fermentare la frutta che c’era, mele selvatiche, quelli che oggi chiamiamo “frutti antichi”».
Il sidro: stessa lavorazione del vino
Sono anni che Croci produce sidro. Del resto, si fa come il vino: il frutto dopo esser stato raccolto viene sminuzzato e pressato, per estrarre il succo (mosto) che poi viene lasciato fermentare. A lungo, il suo sidro è stato solo un regalo per gli amici, ma dallo scorso anno ha a disposizione un laboratorio dedicato e può imbottigliarlo e venderlo: si chiama XXX, è il sidro dei tre fratelli Croci. «Il mio obiettivo è valorizzare questo territorio collinare, che si sta spopolando. Nei miei vini scelgo la tradizione della rifermentazione naturale in bottiglia, in questo caso le mele che utilizzo arrivano tutte dal piacentino, in parte dai nostri alberi e in parte da altre aziende agricole. Il mio sogno è avere nuovi fornitori, magari giovani che invece di usare i finanziamenti a fondo perduto del “nuovo insediamento” per comprare un trattore, con quei soldi piantano un frutteto, dato che le mele valgono tra i 150 e i 200 euro al quintale e possono dare una mano a mantenere il territorio». Un’altra scommessa Croci l’ha fatta insieme a Pietro Gazzola, il socio con cui ha avviato l’esperienza del Vecchio Consorzio 1953, una cantina che trasforma uva e mele acquistate da terzi: “Spacco” è un sidro secco rifermentato, prodotto con solo mele antiche di montagna e fermentato con lieviti indigeni, destinato alla grande distribuzione. Obiettivo: contribuire a rendere nuovamente popolare il sidro, una bevanda a bassa gradazione alcolica che si è sempre prodotta nelle montagne del nostro Paese e può rappresentare una valida alternativa a tutto pasto al vino.
Dal Cuneese anche il sidro firmato da uno chef
Ci crede anche Juri Chiotti, che guida la cucina di REIS – cibo libero di montagna, in Valle Varaita, nel cuneese. Chef di formazione, Chiotti oggi è un cuoco che alleva, coltiva e raccoglie. Nel paniere di REIS c’è anche “Vermalin”, come si chiama il sidro prodotto usando solo le mele raccolte nei suoi campi, trasformato e imbottigliato nella Sidreria Craveri & Lamberti di Busca (CN), uno dei progetti dei tre giovani soci di Braccia Rese. «Sono frutti di 9 o 10 varietà, di una delle quali conserviamo solo tre piante. C’è un melo, sopra il ristorante, tra il dehor e l’orto, che si stima abbia almeno 200 anni. Oggi ritengo che il sidro di mele sia la bevanda più coerente con il mio progetto e che possa consumare chi siede a un tavolo di REIS», racconta Chiotti. A chi arriva, offre non a caso un bicchiere di sidro. La raccolta delle mele è un momento di condivisione con Braccia Rese mentre per l’imbottigliamento si usano ogni anno le stesse bottiglie, che non hanno etichetta ma un cartellino al collo. «In estati sempre più calde, il sidro, che ha la metà dei gradi di un vino, è una bevanda fresca e dissetante: tanti lo scelgono anche per questo» sottolinea Chiotti. Tanti, ma non tutti: il 19 luglio aveva organizzato una cena dedicata ai sidri di montagna, menu e abbinamenti, ma alla fine non si è fatta. «Avevo solo 4 prenotati: scardinare le abitudini è un problema».
Bevanda poco alcolica tradizionale in montagna
Eppure, basterebbe tornare indietro di nemmeno cent’anni per scoprire che sulle Alpi e sugli Appennini si beveva principalmente sidro. Lo scrittore veneto Matteo Righetto nel 2022 ha pubblicato La stanza delle mele (Feltrinelli), un romanzo ambientato nei primi anni Cinquanta in una delle valli ladine delle Dolomiti, nel bellunese. «Per scriverlo ho approfondito tanti aspetti legati all’agricoltura di alta montagna, attraverso testimonianze dirette e fonti bibliografiche: sopra i mille metri e fino ai 1.600-1.700, a seconda dell’irraggiamento, ogni casa aveva i propri meleti selvatici. La vite era impossibile da coltivare, perché le temperature erano più basse. Le mele erano fonte di nutrizione, di calorie e di zuccheri, arricchivano una dieta povera, e venivano utilizzate in vari modi. Uno dei principali era la produzione di sidro, una bevanda fresca, rifermentata, leggermente alcolica, rinfrescante e – fondamentale a quei tempi – potabile. Quelle mele, ce ne sono ancora intorno a vecchie case abbandonate, non hanno nulla a che fare con quelle che compriamo al supermercato: le piante erano cariche di piccoli pomi, molto pesanti, molto duri, pieni di tannini al morso, ma una volta torchiate e rifermentate, producevano questo most, lo chiamavano così, il cui profumo lo sentivi a un metro di distanza. Prima di essere trasformate, le mele venivano conservate in appositi ambienti, la stanza delle mele appunto, arieggiati, nel fienile, lontani dalle stalle, dove venivano controllate e rigirate, per non essere intaccate da muffe e insetti. Alcuni anziani mi hanno raccontato che da bambini ci dormivano nella stanza delle mele, tanto era pulita e profumata» conclude Righetto”.
In un’altra montagna, l’Appennino pavese, per il sidro si raccoglievano le mele cadute a terra (i pum mac, le mele ammaccate) da questi grandi alberi selvatici. Sono storie raccolte da Federica Riva, descritte nel suo libro I frutti della memoria (Edizioni SemiRurali, 2024): «Ai bambini era lasciato un po’ fare, erano loro a gestire la raccolta senza il controllo da parte degli adulti. Per questo, il ricordo dei pum mac riporta alcuni degli intervistati alla loro infanzia, quando il gioco era spesso mischiato con il lavoro sui campi, nei pascoli o nella stalla. Chi commerciava all’ingrosso con la pianura fece i soldi con i pum mac, usati per la produzione di una sorta di sidro».
La rifermentazione in bottiglia
Marco Rizzardi, vignaiolo a Crocizia, nel primo Appennino parmense, ha iniziato a fare sidro una decina di anni fa: «Proprio per non perdere le mele di un paio di piante che avevo davanti a casa», racconta. Era stanco di vederle cadere, di vederle marcire. Non tutte potevano essere mangiate o regalate. «Intorno alle case e ai campi c’erano ovunque alberi da frutto che servivano per il fabbisogno familiare. Erano tempi diversi. Si raccoglievano a ottobre o novembre e i frutti duravano fino a Pasqua, conservati in cantina o in solaio come un tesoro. Mi è capitato di andare in alcune case, con mio padre, portando del vino e ricevendo in cambio a primavera 4 o 5 mele, come se fosse oro. Un po’ raggrinzite, perché avevano perso liquidi, ma ancora bellissime. Si erano mantenute tutto l’inverno». Marco Rizzardi ha iniziato a fare sidro nel 2016. Tra le caratteristiche, ci sono la vinificazione e l’affinamento in damigiane di vetro. Presto ha sperimentato anche quello di pere. Oggi le sue tre etichette sono “Cyderpunk”, “b-side” (ottenuto da mele a buccia verde) e “Ladyperry”.
«Alla fine il metodo di lavorazione è simile a quello emiliano dei vini frizzanti. Si imbottiglia con un minimo residuo zuccherino, che poi garantisce la “presa di spuma”, la rifermentazione in bottiglia» racconta Rizzardi. In questi dieci anni ha visto cambiare il pubblico: «Alle fiere dedicate al vino lo facevo assaggiare, per curiosità, ma tanti non lo volevano nemmeno. Il sidro era una cosa molto lontana dal vino, in molti non erano preparati a quel sapore. Mi chiedevano se c’era alcol. Oggi, invece, c’è gente che si avvicina al mio banchetto anche solo per assaggiare i sidri. Tanti nuovi appassionati arrivano dal mondo della birra artigianale». Forse è un paradosso, pensando che lì si parte da un cereale e non da un frutto, com’è invece l’uva. Del resto, anche la prima guida ai sidri è in realtà un’appendice alla Guida alle Birre d’Italia di Slow Food Editore. E se esistono vignaioli che si mettono a produrre sidro, esistono anche birrai pronti al sidro, come Stefano Botto di Cantina Errante-Birrificio San Gimignano che a Siena ha piantato un piccolo frutteto insieme alla cooperativa Mondo Mangione.
Consumi in crescita per il sidro in Europa
Il mercato del sidro in Europa cresce al ritmo del 4% annuo e dovrebbe arrivare a un valore di oltre 7,3 miliardi di dollari da poco meno di 6, secondo l’Europe Cider Market Research Report del giugno 2024. Il consumatore è alla ricerca di sidri dal gusto ben definito, ottenuti al 100 per cento da succo di mele, senza zuccheri né lieviti aggiunti, perché è la fermentazione spontanea a garantire la piena riconoscibilità della varietà del frutto utilizzata.
Il nostro palato distingue chiaramente il sidro di Mela rosa dell’agriturismo Il Corniolo di Castiglione Garfagnana (LU) dal “Berillo”, che è fatto al 50% usando mela cotogna: quest’ultimo è uno dei due sidri di mele imbottigliati dalla società agricola Substrato, una giovane azienda nata in Valtellina nel 2018 proprio intorno al recupero di questa tradizione. Giacomo Rodolfi e Sebastiano Pini hanno iniziato da hobbisti ma presto hanno preso in affitto dei terreni terrazzati, a Grosotto, «vecchi vigneti ormai a zerbo, cioè incolti, dove abbiamo piantato oltre 30 varietà, non necessariamente valtellinesi ma da tutto l’arco alpino, con caratteristiche organolettiche adeguate alla produzione del sidro. Obiettivo: ottenere un bouquet interessante». In tutto, sono circa 800 gli alberi, tra mele e pere e cotogne, su 3 ettari e mezzo. Le cotogne sono una sorpresa: «Mio padre l’aveva piantata per la cotognata ma c’era sempre un surplus ed è un frutto molto interessante, perché è aromatico, ha una buona acidità e un elevato livello di tannini, tre caratteristiche difficili da trovare che regalano un prodotto fresco, profumato, lungo». La cantina di Substrato è ospitata nei locali di Butega Valtellina, start-up fondata da tre giovani valtellinesi che si occupa di ricerca e distribuzione di prodotti con il claim “Unici, non tipici”. Distribuiscono anche le 3 etichette a marchio Melagodo, sidro di mele spumantizzato da antichi meleti valtellinesi.
La nuova frontiera del sidro: il Metodo Classico
La frontiera del metodo classico è invece una sperimentazione dell’azienda agricola Laura Del Fatti, sempre a Grosotto (SO). E mentre in Italia si costruisce un mercato, la Commissione europea sta discutendo l’introduzione di norme per la commercializzazione del sidro: nell’aprile del 2023 ha inviato una comunicazione al Parlamento. L’obiettivo è quello di una migliore identificazione del prodotto, attraverso la costruzione di una reputazione e di una fiducia nella denominazione commerciale. Ma anche la segmentazione in categorie, in grado di differenziare «il sidro/sidro di pere relativamente economico per il consumo di massa (miscela industriale di succo di mela/pera, alcool, acqua, aromi, zucchero) dal sidro/sidro di pere di qualità o tradizionale (puro succo di mela/pera fermentato)».
di Luca Martinelli by Gambero Rosso