Cade la foglia di FICO, e dietro a questa foglia fatta di grandi promesse, di eccellenze sbandierate (a parole), di numeri altisonanti e di ambizioni tonitruanti si nasconde esattamente ciò che si pensava: la normalità, ovvero nulla di orribile ma nemmeno qualcosa per cui restare a bocca aperta.
Questo è, in sintesi, il giudizio di massima sul megaparco tematico dell’agroalimentare nato dall’immaginazione di Oscar Farinetti, il padre-burattinaio di Eataly (uno talmente bravo a vendere le cose che sarebbe capace di vendere il ghiaccio agli eschimesi o la sabbia ai beduini del deserto), pagato con i soldi di Coop Alleanza 3.0 e su un terreno concesso a gratis dal Comune di Bologna, che non sapeva più cosa farsene di un Centro Agroalimentare di grandi dimensioni dato che i piccoli fruttivendoli da rifornire oramai sono praticamente estinti.
E a cui il Comune ha creato – per esplicita ammissione in conferenza stampa – autentici ponti d’oro bypassando o accelerando le normali trafile burocratiche che in altri casi richiedono tempi biblici: molto onorevole se si pensa che si sia fatto per spingere un progetto che, nelle intenzioni, dovrebbe giovare assai alla città, ma sarebbe simpatico che la stessa solerzia toccasse anche agli altri utenti che non sono così fichi.
“Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi: intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3,7)
Premessa: in vista dell’inaugurazione ufficiale gli operatori del settore e i rappresentanti della stampa specializzata sono stati invitati, a scaglioni e in giornate diverse, a visite di preview di FICO, acronimo che sta per Fabbrica Italiana Contadina, nelle intenzioni dei suoi realizzatori un parco tematico dedicato alla filiera di quanto ci sia di meglio nell’agroalimentare italiano, dal campo o dalla stalla fino alla tavola.
Che è un po’ come raccogliere un sacco di tarli e portarli nella legnaia: mangiano, ringraziano e lasciano la segatura.
I gastrosnob scriveranno bene del posto solo se è fico (con la effe minuscola), i marchettari solo se arriva il boni-fico, i leccapiedi, proni e genuflessi come sempre, puntano sul detto “piatto rico, mi ci fico”. Io, che cerco di non appartenere a nessuna delle tre categorie, proverò a dirvi tutto ciò che ho captato in un tour di mezza giornata abbondante. Con sincerità e con obiettività.
“Ma quant’è fico quello lììììììì, ma guarda che maglietta e che jeans” (Pippo Franco, “Che fico”, refrain)
Un’architettura fichissima
Punto primo: FICO (o per gli indotti Eatalyworld, nome che alla proprietà non piace perché rischia di svelarlo per quello che è, una versione gigantiaca degli store Eataly) dal punto di vista architettonico è veramente bello. Luminoso, tutto sui toni lievi del beige, con grande uso e abuso di vetri e cromature, sembra a tratti il duty free di un grande aeroporto internazionale. Certo, anche i Piombi di Venezia o la Lubjanka architettonicamente sono belli, discutibile era l’uso che se ne faceva. Ma almeno sull’estetica non abbiamo lesinato. Inquietanti somiglianze con l’Expo 2015 e il Mercato di Mezzo di Bologna, con i quali FICO ha di certo più di una parentela. Splendido il “piano cottura”, un pianoforte con forno incorporato: da infarto.
Bestiame e orti: la fattoria didattica
Punto secondo: la fattoria didattica. Sì, la prima cosa che salta agli occhi visitando FICO, e devo dire anche quella che mi è piaciuta di più, è la parte della fattoria didattica. Le famose stalle di cui tanto si è vagheggiato, dove brucano, grufolano, razzolano mucche, maiali, pecore, capre, conigli, cavalli, somari e polli delle principali razze italiane, talmente ben tenuti che sembrano gli animali di porcellana della Thun. Orti disposti talmente bene che sembrano allestiti da Capability Brown o da André Le Notre. Frutteti, agrumeti, vigneti, persino una tartufaia. Tutto a scopo dimostrativo, ben fatto, ben organizzato, forse un po’ troppo leccato. Perché in realtà il lavoro del contadino è sudore e letame, puzza e disordine. Ma come esibizione ci può stare.
Le fabbriche di FICO
Punto terzo: le “fabbriche”. Sono oltre quaranta. C’è di tutto, o quasi. E in realtà sono botteghe e/o punti di ristoro, dove quello che prendi paghi. Niente di nocivo per la salute, ma nemmeno roba da strapparsi i capelli. A regnare sono gli sponsor, che contaminano persino le toilettes visto che all’ingresso campeggia il nome dell’azienda fornitrice dei sanitari. Perciò il pollo è Amadori, i dolci da forno sono Balocco, il gelato è Carpigiani, la birra è Poretti o Baladin, la pizza è Rossopomodoro, la pasta secca all’uovo è Campofilone, il culatello è Antica Ardenga, la porchetta è Renzini, il latte è Granarolo, la pasta di Gragnano è De Martino, la conserva di pomodoro è Mutti, gli sciroppi sono Fabbri, le patate sono Pizzoli, il caffè è Lavazza, la liquirizia è Amarelli, le mele sono Melinda, il miele è Conapi, i tartufi sono Urbani, il vino è Cevico o Fontanafredda, il cioccolato è Venchi e via di questo passo.
Non mancano ovviamente i grandi consorzi come Parmigiano-Reggiano, mortadella di Bologna, Grana Padano, prosciutto di Parma, Squacquerone di Romagna del Caseificio Valsamoggia, Prosciutto di San Daniele, piadina romagnola, mentre in mezzo a corridoi enormi in cui si perderebbero anche le Giovani Marmotte una miriade di chioschi offre (non gratis) panini al lampredotto, patatine fritte, arrosticini, spremute di frutta e di verdura, pizze al taglio, gnocco e tigelle coi salumi, focaccia ligure e farinata di ceci, pizza al taglio e specialità regionali.
Voi direte: e che c’è di male? Nulla, se non fosse che queste cose, in genere, le trovo anche al supermercato e che quindi non mi impressionano più di tanto. Ma fido che per un visitatore che arriva da in capo al mondo l’effetto sia diverso e più pregnante.
I punti forti: pochi ma buoni
Poi c’è anche una dimensione qualitativa: in primis alcune chicche della ristorazione davvero di primissima, come Il Mare di Guido, gestione Ristorante Guido a Miramare, chef Gianpaolo Raschi, una stella Michelin, oppure il Cinque, gestione Enrico Bartolini – Le Soste, anche lui una stella, o ancora l’Osteria del Fritto con il pesce di Gaetano e Pasquale Torrente. Bisognerà poi vedere quanto costerà mangiare in questi veri templi del gusto, se saranno all’altezza della loro fama tanto per qualità quanto per il conto finale oppure se si limiteranno a giocare un ruolo di facciata.
E poi ci sono gli “assi di briscola”, ovvero quelle realtà che, quando fai qualcosa di enogastronomico a Bologna e vuoi fare capire alla gente che stai facendo sul serio, non puoi esimerti dal coinvolgere, pena l’essere subissato di critiche. E parlo ovviamente della Macelleria Zivieri di Monzuno, qui protagonista del teatro della carne assieme ai produttori del Consorzio La Granda, del Forno Calzolari di Monghidoro, con tutta la sua offerta di pani speciali e prodotti di livello, e la Trattoria Da Amerigo di Savigno, altra stella Michelin cui, con la rigidità degna di un kolchoz sovietico, è stato demandato il compito di dedicarsi esclusivamente alla produzione dei condimenti e dei sughi per pasta. Sempre molto bravi, un po’ come vedere i tre tenori cantare attorniati dalle ragazze di Non è la Rai.
“Ma quant’è fico quello lììììììì, ma guarda che maglietta e che jeans” (Pippo Franco, “Che fico”, refrain)
La lingua batte….
Poi ti guardi attorno e scopri presenze di varia natura: alcune che c’entrano come i cavoli a merenda, come il Mare Termale Bolognese, lo stabilimento balneare Fantini Club che installa un enorme e temo inutile campo di beach tennis, il negozio delle biciclette Bianchi, e l’immancabile bookstore di librerie.coop, puntuale come ogni anno è puntuale la scadenza delle tasse.
… dove il dente duole
Vedi anche un centro congressi capace di ospitare da 50 a 1000 cristiani, e allora ti rendi conto che il vero business della struttura non è tanto nel parco tematico o nel food store di Eataly (sì, c’è anche quello) o nel ristorante Bell’Italia gestito da Camst (sic!).
Impressione confermata quando in conferenza stampa prende la parola Andrea Cornetti, direttore generale di Prelios sgr, società leader nella gestione del risparmio immobiliare in Italia, e nella testa di chi scrive inizia a lampeggiare un immaginario sottopancia che recita “Non è un’operazione di speculazione immobiliare, non è un’operazione di speculazione immobiliare, oh lo volete capire che NON E’ UN’OPERAZIONE DI SPECULAZIONE IMMOBILIARE?”.
Tralasciamo il resto della conferenza stampa, con i soliti saluti di rito, una frase impropria sugli spaghetti alla bolognese, Farinetti che arringa le folle come solo lui è capace di fare, e una vaga impressione di sollievo da parte dei presenti, della serie “e anche questa menata di FICO se la semo levata dalle b…e”.
“Ma quant’è fico quello lììììììì, ma guarda che maglietta e che jeans” (Pippo Franco, “Che fico”, refrain)
Conclusioni
Conclusione prima: FICO non è né bello né brutto, né un bene né un male, né carne né pesce né verdura. Potrebbe contenere frutta a guscio quindi occhio alle allergie. L’assenza, sicuramente deliberata, di un ristorante specializzato in piatti della tradizione bolognese, da molti deplorata, secondo me è un furbo escamotage per evitare di mettersi contro il mondo della ristorazione bolognese. Per la serie, si viene a FICO per vedere che si mangia e che si beve in Italia, ma se volete tortellini, tagliatelle e cotoletta petroniana andatevene in centro.
Conclusione seconda: FICO non è roba per i bolognesi, che forse ci metteranno piede, passata la scucchia della curiosità post-inaugurazione, una o due volte l’anno. Non ce la vedo mia mamma andare fino a FICO per fare la spesa, e non ci vedo nemmeno le file di ggggiovani che vogliono andare a giocare a beach tennis col Fantini Club. FICO è concepito appositamente per due categorie di visitatori: turisti stranieri, preferibilmente poco informati, provenienti da paesi dove la cucina italiana è un luogo comune o meglio ancora un luogocomunismo. Quindi cinesi, russi, arabi, americani della costa occidentale, gente che ha soldi da spendere e bada poco a ciò per cui li spende.
E poi scolaresche di cinni, che oltre alle fattorie didattiche apprezzeranno tantissimo il gigantesco minigolf che riproduce la penisola italiana. Sempre parlando di bambini per chi viene accompagnato dalla prole è disponibile (non gratis) l’Agribottega, molto più di un banale baby parking, gestito, ça va sans dire, dalla cooperativa bolognese Cadiai.
Gli stranieri invece apprezzeranno tantissimo le “giostre multimediali”: ce ne sono sei, dedicate al rapporto dell’uomo rispettivamente con il fuoco, gli animali, la terra, il mare, il vino e il futuro. Al futuro pensa anche la Fondazione FICO: non si è capito bene se al futuro di FICO, inteso come costi di gestione e loro sostenibilità, o se a quello dell’alimentazione in generale. Staremo a vedere.
Conclusione terza: FICO ha una logistica degna del Medioevo. Non è, ovviamente, colpa di FICO, ma il problema resta. Il programma di navette che dovrebbero collegare la stazione centrale di Bologna con il megaparco, serve come a me serve una rampa da ski jumping attaccata al naso. Nel senso che puoi allestire quante navette vuoi, ma se durante un qualsiasi giorno di fiera queste si intasano nel traffico allora è come mandare la gente a piedi o peggio. Un posto come FICO ha bisogno o di un collegamento ferroviario diretto oppure, vista la vicinanza con l’autostrada, di uno svincolo dedicato.
Conclusione quarta: anche alla luce delle deficienze logistiche testé riportate, la cifra stimata di visitatori che ammonta a sei milioni di persone l’anno, già di per sé a mio giudizio un’esagerazione mostruosa perché FICO sarà anche bellina ma non è la Torre Eiffel o la Grande Muraglia, diventa secondo me un miraggio irraggiungibile. E se l’obiettivo dei sei milioni di curiosi sarà ben di là dal poter essere conseguito, allora i costi di gestione della baracca saranno veramente insostenibili per qualsiasi tasca, e allora si inizierà a limare sulla qualità, ad alzare gli affitti, a fare pagare gli ingressi, la gente sarà sempre meno, perderà interesse, e prima che Farinetti se ne accorga FICO diventa una cattedrale nel deserto. O un asset da vendere a qualcun altro come il Caab prima di lui (si chiama Piano B).
Quando, come, dove, perché e quanto
“Ma quant’è fico quello lììììììì, ma guarda che maglietta e che jeans” (Pippo Franco, “Che fico”, refrain)
Se non vi siete spaventati allora vi do le indicazioni di base per visitare FICO: l’inaugurazione ufficiale è prevista per mercoledì 15 novembre. Chi vi scrive, astutamente, per l’occasione sarà fuori città e ci resterà per quattro giorni. L’ingresso è libero, ma l’uscita è a pagamento. Nel senso che tutto quello che vai a fare a FICO, che sia prendere un caffè, mangiare un boccone, comperare qualche prodottino, giocare a beach tennis, partecipare a un corso in una delle tante aree didattiche (anche loro sponsorizzate da grandi marchi di cucine), acquistare un toscano, visitare una giostra multimediale, ha un costo. Anche la navetta ecologica si paga. E se ci vai per fare niente ti devi chiedere perché ci vai. L’unica cosa gratuita è vedere le mucche.
“Mi piace un frego quello lì, è un tipo fico, ma proprio fiiiiiiiiiiicooooooooooo” (Pippo Franco, “Che fico, refrain)