Quando l’aceto balsamico di Modena era solo un “affare di famiglia”, Adriano Grosoli e altri tre imprenditori riuscirono a trasformare l’oro nero della food valley emiliana in un’eccellenza del made in Italy.
A quasi 92 anni l’uomo, titolare dell’Aceto Balsamico del Duca e l’ultimo rimasto in vita del quartetto di imprenditori che negli anni Sessanta guidò il passaggio dell’aceto balsamico dalle cantine domestiche al mondo dell’industria, portandone il nome sui mercati esteri attraverso fiere in Europa e negli Stati Uniti, con intraprendenza e spirito pionieristico.
Al di là delle produzioni familiari destinate a un consumo casalingo, fino alla metà degli anni Ottanta l’intera produzione del balsamico era infatti appannaggio di pochissimi: insieme ad Adriano Grosoli c’erano Giorgio Fini, Elio Federzoni e Giuseppe Giusti.
Dalla cittadina di Spilamberto, alle porte di Modena, il titolare dell’Aceto del Duca ha da poco passato il timone dell’azienda di famiglia alla figlia Mariangela, che è anche presidente del consorzio di tutela dell’IGP.
Una storia imprenditoriale d’altri tempi
La sua è una storia di imprenditoria d’altri tempi: classe ’29, Adriano Grosoli viene chiamato a causa della guerra a occuparsi dell’attività di famiglia, iniziata nel 1891 dal nonno Adriano e insignita della medaglia d’oro all’Expo di Genova nel 1927, che comprendeva principalmente la lavorazione del maiale, la gestione della trattoria a San Donnino di Modena e della bottega di prodotti tipici modenesi, in primis il balsamico. È su questo prodotto – fino a quel momento legato a una dimensione esclusivamente familiare – che decide di puntare, in concomitanza con l’apertura dei primi supermercati nazionali.
Nel 1965, in occasione del riassetto normativo del settore aceti, è tra i promotori della richiesta di riconoscimento e regolamentazione del prodotto: avvia le procedure per ottenere la licenza ministeriale per la produzione di Aceto Balsamico di Modena e inizi che otterrà nel 1974, poi nel 1993 è tra i fondatori del Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena per tutelare e promuovere il prodotto e presentare domanda all’Unione Europea di registrare la denominazione come IGP.
Nel 2013 la vecchia Bottega da cui è iniziata la storia imprenditoriale della famiglia viene insignita della certificazione di Bottega Storica dal Comune di Modena. Nel 2016 l’Aceto del Duca entra a far parte dell’Unione Imprese Storiche Italiane. Oggi l’azienda conta 20 dipendenti, esporta il 75 % della produzione in 40 Paesi ed è uno dei marchi di Balsamico più conosciuti nel mondo.
E mentre promuove l’oro nero anche all’estero, con frequenti trasferte oltreoceano, esporta il suo amore per la città e la sua storia (finanziando il restauro del dipinto di Velazquez raffigurante Francesco I d’Este), la passione anche per le altre specialità modenesi e lo stile di vita emiliano.
Com’era fare l’imprenditore nel campo del Balsamico negli anni in cui ha iniziato l’attività? Quali erano le difficoltà?
Era entusiasmante, ma i più non avevano capito ancora le potenzialità di questo prodotto. Quindi le difficoltà di trovavano su molti fronti; intanto il balsamico era conosciuto solo nell’area intorno a Modena e in qualche mercato estero, dove qualche coraggioso produttore si era spinto, per caso o con cognizione, in fiere alimentari. Il resto dell’Italia conosceva e utilizzava solo l’aceto di vino. Perciò c’era da fare “promozione” per farlo conoscere.
Poi avevamo il problema legislativo, perché era normato solo da un D.M. del 1965 che lo trattava semplicemente come un aceto agro di vino speciale, ma il balsamico è molto di più!
Per l’export si aggiungevano le difficoltà di lingua, di capire la mentalità del consumatore del Paese in cui esportavi, di capire le richieste di legge. Infine le difficoltà di trasmissione dei documenti e soprattutto delle descrizioni e delle immagini dei prodotti: non c’era altro che la Posta, e quando il Videotel di Sip mi fu proposto mi sembrava di aver acquistato un pezzetto di futuro, che mi avrebbe semplificato la vita. Sappiamo bene poi come è andata.
Com’erano i rapporti tra voi quattro, Fini, Federzoni, giusti e lei? Vi sentivate più concorrenti o più squadra?
I rapporti erano di “diffidente cooperazione” nel senso che avevamo capito di avere tra le mani un prodotto prezioso, da tutelare e da far conoscere al grande pubblico dei consumatori mondiali. D’altro lato eravamo anche un po’ sospettosi verso i concorrenti, come era buona norma. Eravamo sia squadra che concorrenti; squadra nei confronti del grande mondo esterno, concorrenti nel piccolo mondo di Modena.
Chi erano i vostri clienti?
Quasi esclusivamente stranieri, prevalentemente italiani emigrati di prima o seconda generazione che avevano avviato attività di importazione di prodotti alimentari, ma anche aziende gestite da stranieri sempre alla ricerca di nuovi prodotti italiani da inserire nei loro mercati. D’altronde i turisti che venivano in vacanza in Italia, specialmente tedeschi e austriaci, provavano il prodotto durante le ferie e volevano portarselo a casa e poi anche ritrovarlo nelle loro città.
Qual è stato il momento più difficile e quello più gratificante?
Il più difficile fu sicuramente quando ci comunicarono che una azienda di Napoli si era opposta in giudizio al Decreto che specificava che l’aceto balsamico si produceva a Modena e aveva purtroppo ottenuto la temporanea autorizzazione a produrre Aceto Balsamico di Modena a Napoli. Da quell’attimo di scoramento è però scaturita la reazione dei pochi produttori di allora, Fini Federzoni e Giusti e il sottoscritto, che per difendere la territorialità si sono dapprima uniti per la battaglia giudiziaria e poi hanno realizzato che i tempi richiedevano un ulteriore passo avanti e nel 1993 danno vita al primo Consorzio di Tutela dell’Aceto Balsamico di Modena che poi presenterà domanda per la registrazione come IGP.
Negli anni ’60, quando il ministero ha fatto la “eccezione” per l’Aceto Balsamico, questo prodotto aveva una dimensione soprattutto familiare. Voi siete stati quelli che l’hanno trasformato in un prodotto di punta della food valley emiliana, a livello industriale. Come avete conciliato questi due aspetti?
Ovviamente quando la richiesta del prodotto era in crescita esponenziale, ci si è dovuti occupare del problema produttivo. Noi siamo cresciuti piuttosto velocemente, ed ogni anno facevamo consistenti investimenti in barili e tini di legni pregiati, come quelli del maestro Renzi di Modena. Le materie prime erano locali, ma dovevamo cercare produttori in grado di fornire quantità consistenti e non era facile. Pensi che essendo riuscito a trovare il nostro fornitore storico di aceto di vino, oggi non più vivo, mi sono assicurato la fornitura dell’aceto “forte”, come lo chiamavamo tutti, anche a diversi salumifici della zona, a cui lo rivendevo. Loro non erano riusciti a trovare un fornitore per quella qualità e quelle quantità, così lo acquistavano da noi. Penso che siamo riusciti a conciliare la grande crescita con la piccola dimensione precedente, lavorando molto e con impegno, aumentando dimensione e numero di addetti, ma mantenendo salda l’attenzione alla qualità del prodotto e alla cura della confezione. Un buon prodotto, presentato bene e al giusto prezzo, complice anche la svalutazione della lira per molto tempo, hanno determinato il successo crescente.
Com’è cambiata la clientela dell’aceto balsamico da allora? Oggi c’è più cultura/conoscenza del prodotto?
La clientela è molto cambiata, perché agli inizi c’era la necessità di spiegare cos’era; la prima domanda alle fiere all’estero era “ is this wine? A cui puntualmente seguiva un’espressione esterrefatta quanto sentivano che era “balsamic Vinegar” ..questo sconosciuto… A seguire, raccontavo la storia di come si produce da secoli nell’area di Modena, la tecnica produttiva , la storia della famiglia che sempre affascinava, soprattutto gli americani. Poi l’assaggio e la domanda “come lo usate in Italia? Quali piatti preparate?” e il balsamico entrava nelle loro cucine come ambasciatore del made in Italy.
Oggi spesso l’approccio è di chi sa già cosa sia il balsamico, come si utilizzi e quale sia la sua storia, complice la massa di informazioni che provengono dal web. Ma siamo sicuri che sia davvero così? Io credo che in realtà ci sia ancora molto da imparare sulle diverse “qualità” del balsamico e sul suo utilizzo; per esempio quando vedo errori madornali come il consiglio di utilizzare un balsamico di fascia bassa sulle fragole o sul parmigiano, penso ”così siamo sicuri che, provato una volta, non lo vorranno mai più utilizzare”.
Sul web, e anche al di fuori, a volte si diffondono informazioni distorte, che prendono piede e si faticano a correggere. C’è una conoscenza superficiale e influenzata da mode e trend. Pensando a ciò che io stesso ho raccontato, il nostro lavoro non è poi cambiato così tanto, in fondo: promozione, racconto della nostra storia, spiegazione delle tecniche produttive ed esempi di utilizzo, oltre alla tutela rispetto a prodotti imitativi, restano i capisaldi a cui ancor oggi non possiamo venir meno.