Un giorno a Dogliani, al Festival della TV, tra dibattiti, confessioni, retroscena, incontri che rivelano stranezze, atteggiamenti, modi di vivere e di pensare. Food, Architettura e Paesaggio sono stati i miei temi seguiti. Vi accompagno in uno scenario di Bellezza
Qui, al Festival, è bello fermarsi: ascoltare, osservare, degustare, chiacchierare, incontrarsi, lasciarsi coinvolgere, confrontarsi.
Sto parlando di Dogliani, quando, tutti gli anni, di questi tempi, diventa capitale di idee, racconti, novità, retroscena, personaggi popolari, volti noti.
Sabato 3 giugno, sono approdato nella città di Luigi Einaudi, uno dei padri della Repubblica italiana, di Carlo De Benedetti (doglianese d’adozione, ndr), del Dolcetto, e, da un po’ di anni, madrina di questo affascinante Festival. Quest’anno, il filo conduttore è “Coordinate”, un tema che si rivela quanto mai attuale e intrigante.
“Abbiamo camminato in questi ultimi anni senza quasi mai alzare la testa, un passo dopo l’altro lungo un percorso stretto e inevitabile che non abbiamo scelto. Siamo stati catapultati in una dimensione dell’imprevedibile capace di sconvolgere molte di quelle che consideravamo certezze e rivelate le nostre fragilità… ora è il momento di recuperare i punti di riferimento per non lasciarsi prendere da un senso sterile di smarrimento, è il tempo di orientarsi, il tempo di ritrovare le coordinate”.
Sono le parole di Federica Mariani, direttrice creativa, che assieme a Simona Arpellino, direttrice organizzativa, è anima del Festival.
E così, tra un calice di Dolcetto e un caffè, spazio tra Piazza Umberto I, Piazza Carlo Alberto e Piazza Belvedere. Il calendario è fitto e allettante, ma non ho tempo e spazio per seguire tutti gli incontri che mi stuzzicano.
Mi interessa l’incontro in Piazza Belvedere, dove si dibatte sulla “Food Revolution”, tema molto attuale, che guarda al futuro con incertezze, qualche perplessità e dilemmi diffusi. Paolo Vizzari sollecita e accompagna gli ospiti sulla narrazione gastronomica: cosa accade quando mangiamo? Come nasce questo interesse incalzante per la gastronomia… com’è cambiata la figura dello chef.
Matias Perdomo, chef uruguaiano di Contraste, a Milano “Preparare il cibo per gli altri è un segno di responsabilità sociale, è un atto di cultura, un dialogo continuo col mondo gastronomico che ci circonda, coi produttori, con la natura dei fornitori, è anche raccontare cosa c’è dietro al piatto. Dobbiamo fare bene la gente che ti viene a trovare, questa è la rivoluzione”.
Ma la rivoluzione del cibo non si manifesta soltanto guardando il lato esteriore del meccanismo, bensì osservando la parte nascosta, quella un po’ più cupa che riguarda i prodotti, la loro scelta, prima che questi raggiungano i banchi di vendita, la distribuzione.
Il tema viene sviluppato da Marco Pedroni, Presidente Coop Italia: “L’attenzione al tema del cibo è diventata molto importante negli ultimi 15 anni; c’è chi vuole diventare cuoco, chi pasticcere, chi vuole dare valore al cibo, non più solo consumo ma parte considerevole dell’esistenza umana. Questo è il lato bello, positivo che ti riporta alla convivialità, alla socialità, alla piacevolezza della condivisione. Non voglio dimenticare il rapporto col territorio che è fondamentale in questo discorso. Io sono di Reggio Emilia ma voglio spezzare una lancia a favore di questa terra dove mi trovo adesso. Qui sono nate idee, progetti straordinari, nuove filosofie attorno al cibo; nominare il Movimento Slow Food è doveroso su questo tema, il lavoro dei produttori, il cibo di qualità, il prezzo “giusto” di Carlo Petrini”.
“Ma non è tutta armonia attorno al cibo; esiste, purtroppo il lato B. Partiamo dalla questione sociale: negli ultimi 20 anni le differenze sociali si sono accentuate, la classe media si è impoverita. Questo porta ad una divisione: una classe più abbiente che può permettersi di pagare un prezzo più alto ma che guarda molto alla qualità dell’offerta e una parte più numerosa che è spinta verso la discountizzazione. Noi di Coop sosteniamo che il cibo buono deve essere per tutti”.
“Dopo gli anni della pandemia, delle costrizioni e delle chiusure, bisogna inventarsi una cucina che possa fare stare insieme la gente”. Questo il pensiero Enrico Bertolino, uomo di spettacolo milanese.
Ma passiamo alla storia di Yvan Sagnet, giovane ingegnere del Politecnico di Torino, arrivato dal Camerun, che d’estate, da studente, per arrotondare, si sposta nelle masserie pugliesi per lavorare nelle campagne, precisamente a Nardò. Racconta la storia di tanti braccianti umiliati, sottopagati, sfruttati. È la storia del caporalato, dove la “ricerca del profitto prevale sulla tutela della dignità, della salute, e della sicurezza dell’uomo”. Parliamo di Puglia ma il fenomeno investe, purtroppo, tanti territori agricoli in tutto il nostro Paese. Il pomodoro raccolto da Yvan, e che poi troviamo sui banchi, percorre una strada non corretta, disumana.
“Parto da Torino, studente del Politecnico, per arrivare a Nardò, e scopro il lato oscuro di questo Paese. Se vuoi lavorare vai lì, mi era stato promesso, ma nessuno mi aveva descritto come e dove sarei stato accolto. Baracche di plastica o di cartoni e centinaia di ragazzi come me provenienti da ogni parte del mondo. Io vengo dall’Africa, siamo poveri, ma c’è la dignità nella povertà. A Nardò si lavorava 16 ore al giorno, calpestati dalla sopraffazione dei caporali, pagati a cottimo: più ti rompevi la schiena più guadagnavi. Ma da quella cifra dovevi sottrarre alcuni costi (il trasferimento, il panino, etc.). io ero ancora fortunato perché ero studente ma i miei compagni lo facevano per scelta, per necessità. Il caporale sfrutta il soggetto più debole del mercato del lavoro”.
Ma nella rivoluzione entra il concetto della provenienza dei prodotti, è cambiata l’identità dello chef. Dice Matias “si è passati dal ‘come l’hai fatto’ al ‘perché l’hai fatto’. Ci dev’essere una consapevolezza nuova che ti porta a chi produce, chi è l’azienda da cui compri, ci vuole attenzione per sapere, conoscere come vengono trattati gli animali, per avere un consumo sano e trasferire poi al consumatore sia il racconto ma anche il piatto da assaggiare”.
Il food, la sua provenienza, le narrazioni portano lontano, ci conducono al paesaggio agricolo e allora torniamo giù, in piazza, dove il Festival prospetta un bel dibattito, “Architettura e Paesaggio”, condotto da Aldo Cazzullo, vicedirettore del Corriere della Sera, ospiti due personaggi celebri dello scenario contemporaneo, due archistar, uno milanese, Stefano Boeri, l’altro leccese, trasferito a Milano, Fabio Novembre. Si parla di nuovi progetti, spazi e paradigmi del costruire, capaci di fare dialogare cultura, impresa e territorio.
Proprio dal palco del Festival della TV di Dogliani arriva la notizia del progetto innovativo firmato da Boeri e Novembre: La realizzazione di uno spazio produttivo ed uno espositivo per Italian Radical Design, il gruppo fondato dagli imprenditori albesi Sandra e Charley Vezza, allo scopo di valorizzare e rivitalizzare marchi di design italiani accomunati da una visione controcorrente, radicale e anticonformista.
Il multipolo nasce nel cuore delle Langhe, tra Barolo e Castiglione Falletto.
“Una sfida bellissima in un territorio straordinario – esordisce Boeri –. Mi stimola l’idea di ragionare sul design radicale, una corrente inquieta, potentissima nata a Firenze negli Anni Settanta e tuttora poco conosciuta. Ci inseriremo in un paesaggio unico con due progetti di fondovalle dall’identità chiara, visibile soprattutto dall’alto delle colline. Saranno due interventi al tempo stesso innovativi e sostenibili, che cercano di minimizzare l’impatto, che cercheranno un dialogo con queste colline”. Un dialogo non semplice che attirerà molti sguardi ed inevitabili critiche ai piedi della collina di Cannubi, il vigneto cru del territorio del Barolo.
Fabio Novembre mette già le mani avanti: “Sappiamo di camminare sulle uova. È il problema dell’innovazione che spaventa chi si sente rassicurato dalla finta classicità delle cose che ci circondano. Mi piace ricordare una frase di Maurizio Nannucci, artista meraviglioso che trasforma la poesia in giochi di neon, ‘All art has been contemporary’, ‘Tutta l’arte è stata contemporanea’. Perché vi dico questo! Perché quando noi oggi parliamo di classicità, guardare in forma statica ciò che ci circonda, ricordiamoci che tutti abbiamo un compito importante: testimoniare il nostro tempo. Ciascuno deve dare forma al suo tempo. Ascoltando chi qui vive e opera, si percepisce quanto sia grande l’attaccamento a questo territorio, quanto sia autentico lo spirito del luogo; sento l’energia e cerco di dare forma a quell’energia. Vorrei che capiste che l’architettura non è distante dalla vita, l’architettura è la vita e noi dobbiamo darle una forma”.
Cazzullo descrive la gente della Langa, definendoli “matti, irregolari, giocatori d’azzardo, cercatori di tartufo, vignaioli”. Gente capace di giocarsi la casa o la moglie, o gettarsi nel gorgo per suicidarsi. Tutto questo, i langaroli, nel dopoguerra l’hanno messo nel lavoro, inventandosi la Nutella, il miglior tartufo, il miglior vino, Eataly…tutto questo ha creato il “Sistema Langhe” che ha fatto diventare il territorio un’attrazione turistica. È cambiato tutto! Nello stesso tempo le Langhe sono maestose, modellate dall’uomo, la fatica, la bellezza… “da ragazzo le apprezzavo meno, forse perché ci sono nato, ma ora, quando ci torno per vedere i miei genitori, le vedo sempre così”.
E rivolgendosi ai due architetti, Cazzullo pone una domanda precisa sull’impatto emotivo con le Langhe: “Qual è stata la vostra reazione emotiva, che impressione avete ricevuto guardando queste colline e che impatto ha avuto nel vostro cuore la nostra testa… e come pensate di lavorarci”
“Qui, la tradizione del vino ha modificato il paesaggio. Questo è un paesaggio straordinario – ribadisce Boeri -, molto artificiale, ma che sa offrire delle sorprese improvvise, ci sono tra queste colline scorci sublimi del tutto imprevisti. Trovo affascinante il rapporto tra la radicalità, l’innovazione e la discontinuità. Sono d’accordo con Fabio, sul fatto che l’architettura migliore è spesso discontinua, non deve essere necessariamente in armonia”.
“L’importante è che tale discontinuità sia colta, cioè che stacchi o rompa rispetto alle regole del contesto, però deve sapere che sta facendo questo e per potere trasgredire le regole le deve conoscere molto bene. Se vogliamo aggiungere, invece, qualcosa di inaspettato dobbiamo conoscere le attese. Questo è un lavoro difficile, è la magia dell’architettura”.
Ribatte Novembre: “Io, invece voglio riferirmi alla radice eretica degli abitanti della Langa e all’orgoglio territoriale. Trovo molto bello quest’orgoglio, mi fa impazzire. Questo posto appartiene a chi coltiva la terra, a chi se ne prende cura. È il diritto territoriale che mi appassiona, mi emoziona. Vedo quanto trasporto affettivo ci sia in ognuno che abita questa terra. E mi chiedo il perché, ci sarà un motivo! E allora mi sono detto: se questo orgoglio è così grande, allora, perché non portare l’innovazione!. Pensate alla configurazione fisica dell’uomo: un ‘davanti’, un ‘retro’ e ‘due lati’. Siamo fatti per andare avanti, siamo fatti per evolvere, se si va indietro si rischia di inciampare. Non dobbiamo aver paura di questo”.
Aldo Cazzullo sollecita, a questo punto, Boeri, l’architetto progettista, sul “Bosco Verticale” di Milano, apprezzato e criticato. “Il Bosco Verticale, a proposito di discontinuità non scherza. È stato accolto con scetticismo, in effetti è un’idea un po’ lontana da un’architettura tradizionale, una sfida che io stesso pensavo di non potere portare a termine, ma poi, con un gruppo di ingegneri, di botanici abbiamo portato avanti il progetto e oggi è replicato in altre zone del Pianeta. È diventato il simbolo della Milano che ha voluto cambiare, che ha voluto sostituire quella in bianco e nero, grigia, attorniata dalla nebbia. E c’è riuscita, oggi Milano è una città vegetale, verde; sembra incredibile ma è così”.
E si passa ora al “concetto di città”. Renzo Piano, l’architetto genovese, sostiene, a proposito, che non bisogna più allargarsi, creare megalopoli; occorre riempire i buchi neri, costruire sul costruito, recuperare le vecchie aree industriali. Sollecitato da Cazzullo su come l’architetto Fabio Novembre “vede la città del futuro” e su come queste possano cambiare in meglio, l’architetto parte da un presupposto “Intanto occorre partire da un presupposto e da un dato sicuro: le popolazioni delle città hanno superato gli abitanti della campagna! L’inurbamento del mondo è un fenomeno senza ritorno… va quindi ripensata la vita comunitaria, che per me è molto importante, essenziale. L’Italia è fortemente densa, noi pensiamo al concetto di ‘rarefazione’, ma non è così, c’è molta urbanizzazione. Costruire sul costruito mi sta bene, abbattere ciò che non piace va bene, dobbiamo essere meno conservativi, più leggeri. Meno sognatori ed avere però con se il senso della comunità, io tengo molto a questo sentimento. Dobbiamo fare posto, non possiamo vivere pensando all’eternità, non siamo eterni”.
E se tutto ciò che serve fosse distante 15 minuti?
Boeri, che ha teorizzato “la città in 15 minuti”, la pensa così “L’idea della ‘città in 15 minuti’ non è mia. C’è, ad esempio, l’urbanista franco-colombiano, Carlos Moreno, che ha portato quest’idea a Parigi e sta funzionando molto bene. È una proposta alternativa all’organizzazione urbana contemporanea e agli stili di vita che implica. Offre agli individui un maggiore controllo sul proprio tempo. È il concetto di poter raggiungere i servizi di cui ha bisogno il cittadino in breve tempo in modo confortevole: servizi sanitari, culturali, commerciali, le scuole. Anch’io insisto sul principio di comunità che stiamo perdendo, purtroppo. È un presupposto che sta allontanandosi soprattutto nelle grandi città d’arte. Un’altra tendenza è quella di abbandonare i luoghi di lavoro fisici, si può lavorare da remoto e i tempi di lavoro, il tempo libero e quello dell’abitare non sono più così distinti e permettono di pensare ad una città diversa. Dobbiamo riportare il concetto di borgo all’interno delle città, e questo diventa un progetto politico e demografico di ripensamento della distribuzione della popolazione sul territorio”.
A proposito di “lavoro da remoto”, Novembre dice la sua “Porto l’esempio del mio studio: è molto bello, accogliente… i ragazzi sono molto contenti di frequentarlo, di stare insieme. Certo, l’idea di lavorare sul divano di casa ti alletta ma l’uomo ha bisogno di relazionarsi con le persone e questo deve avvenire, però, in luoghi che ti diano qualcosa, dove c’è uno scambio che va oltre lo spazio. Mi piacciono entrambe le soluzioni, allora cerchiamo di migliorare i luoghi di lavoro, di renderli più belli. Mettiamoci in testa che, alla fine, vince sempre la Bellezza. E con la Bellezza vince l’uomo”.