Quelle che seguono sono le considerazioni del collega giornalista Carlo Macchi di Winesurf sui vini altoatesini che ho voluto condividere per i lettori di Food and So On, perché estremamente interessante.
«L’Alto Adige è la regione italiana che, per recente storia enoica, tipologia di vini e di vitigni si stacca di più dal modo europeo di concepire il vino e si avvicina maggiormente a quello che viene definito Nuovo Mondo enoico.
Questo territorio è stato ed è conosciuto per vini irreprensibili, varietali, tecnicamente perfetti e proposti a un prezzo quasi sempre molto conveniente. Tutto questo non solo è avvenuto nell’arco di 30-35 anni circa ma si è sviluppato con una radicale inversione enoica, che ha visto da una parte l’abbandono quasi totale del vitigno “madre” (la schiava) e la sua sostituzione con uve internazionali. Qualcuno potrebbe obiettare che esistevano e esistono altri vitigni autoctoni come il Lagrein e soprattutto il Gewürztraminer, ma basta andare a guardare quanti ettari erano piantati nel 1985 per capire come l’inversione enoica sia stata una vera e propria rivoluzione.
Rivoluzione fatta solo ed esclusivamente con vitigni internazionali: Chardonnay, Sauvignon, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot Nero e magari me ne scordo qualcuno.
La stessa cosa è, mutatis mutandis, avvenuta in Cile dove l’uva autoctona Pais è stata dimenticata e sostituita in toto da uve internazionali, in Argentina dove la Criolla o la Torrontes oramai servono per i vini casalinghi e impazzano malbec, merlot, chardonnay e chenin blanc.
Per non parlare di Australia, Nuova Zelanda e anche tante parti degli Stati Uniti dove la viticoltura è partita quasi da zero con uve di ogni parte del mondo, vitigni internazionali in primis.
Queste nazioni sono state conosciute quindi grazie a uve internazionali e a vini sempre e comunque enologicamente perfetti, di buona qualità, assolutamente varietali e dal prezzo abbordabile.
I consumatori ricercavano (e ricercano anche adesso, almeno nel 90% dei casi) la sicurezza di un aroma, di un gusto conosciuto e ripetibile, il tutto proposto a prezzo vantaggioso.
Alto Adige, il Nuovo Mondo enoico
Questo succede anche con i vini altoatesini. E infatti oltre ai vitigni quello che rende l’Alto Adige molto “Nuovo Mondo” è anche la tipologia di vini prodotti: estremamente varietali, da bere giovani in molti casi e soprattutto irreprensibili dal punto di vista tecnico. A questo si aggiunge un prezzo indubbiamente concorrenziale. Di diverso rispetto ad altre regioni italiane è, almeno fino a pochi anni fa, l’assoluta mancanza di voglia di puntare sul territorio ma sul vitigno, mentre regioni concorrenti come Il Friuli e il Trentino cercavano strade diverse.
Credo che una delle grandi diversità del Nuovo Mondo altotesino rispetto al resto d’Italia sia stata la presenza, sin da subito, di cooperative avvedute che ha permesso ai loro vini (un esempio su tutti: lo Chardonnay Sanct Valentin di San Michele Appiano) di presentarsi sul mercato con una massa critica importante dello stesso prodotto. Una “sana ripetitività”, un’ampia repribilità sul mercato che, basandosi su “rispondenza varietale/qualità/prezzo” ha permesso all’Alto Adige di imporsi, specie tra i bianchi.
Questa politica quasi trentennale però oggi ha portato l’Alto Adige praticamente nello stesso posto di Cile, Argentina, Australia etc, cioè ad essere “preda” di un mercato dove la qualità conta solo se è supportata da un prezzo basso. Il peggio è che questo accade nel momento in cui l’Alto Adige punta a qualcosa di diverso e più alto, a dei vini che (almeno sulla carta) non siano solo corrette espressioni varietali, ma figli riconoscibili di un territorio, nati non per vivere una breve esistenza ma per svilupparsi negli anni. Si può parlare molto di come questo cambiamento si stia attuando ma fondamentalmente la linea che si sta tracciando è questa.
Una linea che però tiene i piedi in più staffe perché non si può rinnegare o comunque sottovalutare un mercato consolidato.
La zonazione che si sta cercando di fare è, anche questa, molto Nuovo Mondo, perché non si può pensare che nella stessa zona il “terroir” sia adatto, ad esempio, per pinot grigio, sauvignon, merlot, pinot bianco e pinot nero.
Pensate se un produttore langarolo sostenesse che Cannubi è adatto per il nebbiolo, lo chardonnay, il merlot e il pinot bianco o se a Montalcino si sostenesse che a Montosoli viene bene sia il sangiovese che il malbec. Come minimo si penserebbe ad un attacco di follia.
Eccoci al punto: per riuscire veramente a crescere, secondo me, l’Alto Adige deve da una parte rimanere fortemente ancorato ai metodi del nuovo mondo ma dall’altra, nei vini “di territorio”, deve diventare più vecchio del Vecchio Mondo, legandosi solo e soltanto all’espressione del territorio.
Il grande vino territoriale altoatesino, quello che potrà e dovrà essere venduto a prezzo alto, dovrà così perdere molte delle caratteristiche varietali ed esprimere la zona, anche a costo di correre il rischio di essere difficilmente “riconoscibile” e diverso anno dopo anno.
Fare un SuperAltoadige con più corpo, struttura e, magari, tanto legno, porterà forse nell’immediato a dei risultati anche di mercato, ma nel lungo tempo renderà banale e scontata ogni istanza di miglioramento. Capisco sia difficile seguire due strade diverse ma adesso è il momento: per farlo o per non farlo».
Carlo Macchi by WineSurf