Organizzato da Coldiretti Torino, per la valorizzazione del territorio, in occasione delle ATP Finals di Torino, il tour, riservato alla stampa di settore, è andato alla scoperta delle vigne di montagna e delle miniere di talco della Valle dove si affina lo spumante
L’occasione è data dalle ATP FINALS, il torneo che si svolge a Torino tra i migliori 8 giocatori del mondo. Con il contributo della Camera di Commercio di Torino, Coldiretti ha condotto la stampa di settore alla scoperta della Val Germanasca, dei vigneti eroici di montagna e dello spumante affinato nelle miniere di talco.
Si sale su verso boschi impenetrabili, dall’aria autunnale e tra una curva e l’altra ecco apparire la prima miniera di talco. Qui, i nomi delle miniere sono Carla, Gianna, Paola, come le donne della famiglia Villa, un’istituzione da queste parti, i “signori della miniera” dal 1907 al 1990.
Oggi sono visitabili Paola e Gianna, siti dismessi nel 1995, che ci permettono di vivere momenti di scoperta davvero unici.
Per oltre 150 anni, la ricerca, la “coltivazione”, il trasporto del talco, hanno rappresentato per gli abitanti della valle una grande opportunità di lavoro, in alternativa all’emigrazione, ed una buona fonte di guadagno, a costo, anche, di condizioni di lavoro durissime e pericolose, col rischio di gravissime malattie professionali (la silicosi) e di una radicale trasformazione della economia agricola in economia prevalentemente industriale.
Un lavoro, l’unico per la valle, che si è tramandato di padre in figlio. Un mestiere fatto di fatica, che alla sera spezza la schiena, di umidità che entra nelle ossa, e anche di paura. Oggi, diventato prezioso patrimonio di cultura del lavoro, di esperienze, di tradizioni, di rapporti sociali.
Siamo qui, tra le miniere Paola e Gianna, accompagnati da Mauro Camusso, titolare dell’azienda vitivinicola “L’Autin”, di Barge, ai piedi del Monviso. È lui che conduce il gruppo verso i cunicoli dove affina il suo Spumante Metodo Classico Eli da qualche anno: “un ambiente molto particolare e con temperature, buio e umidità costanti nel tempo, condizioni del tutto differenti rispetto a quelle che si possono verificare in cantina”, afferma.
Lo Spumante viene vinificato sia Bianco che Rosé, con uve Chardonnay, Pinot Nero e 10% autoctone per il primo; solo Pinot Nero in purezza per il secondo. Dopo una prima fermentazione in acciaio, si passa all’imbottigliamento. E qui inizia il viaggio magico verso il cuore della miniera: a una a una, si trasportano le bottiglie a mano nelle profondità delle miniere di talco, nelle gallerie dove la temperatura è costante a 10 gradi e l’umidità è al 90%. Le bottiglie trascorrono il loro periodo di affinamento sui lieviti. Buio e silenzio accompagnano il vino nel suo riposo, circondato dal “Bianco delle Alpi”. Le bollicine caratterizzanti nascono da una seconda fermentazione, dopo quella cui sono sottoposti tutti i vini. L’anidride carbonica, che si forma con l’alcol quando i lieviti attaccano gli zuccheri, rimane imprigionata nella bottiglia. Per sviluppare i profumi, la finezza olfattiva e l’eleganza di corpo, le bottiglie si lasciano riposare in miniera almeno 36 mesi (presa di spuma), al buio, nel cuore della montagna.
Trascorso il periodo di affinamento, si procede con il remuage: si sistemano le bottiglie a testa in giù, quindi si ruotiamo e si inclinano progressivamente, fino alla posizione verticale, per raccogliere i residui di lieviti nel collo della bottiglia che si eliminano, poi, con il dégorgement (sboccatura) per ottenere limpidezza. Segue il rabbocco: solo vino per l’Eli Pas Dosé e l’Eli Rosé; vino e zucchero per l’Eli Brut. Ora lo Spumante metodo classico è pronto per essere confezionato.
La visita si conclude con una fantastica degustazione delle “bollicine della miniera”, in un ambiente a dir poco suggestivo.
Un’esperienza molto intrigante, devo dire, particolare.
Ci si trasferisce più in valle, a Pomaretto, per risalire tra stradine strette e impervie. Si raggiunge La Chabranda, un agriturismo di tradizione storica, di Campagna Amica e Terranostra, dove il cibo del territorio è protagonista fondamentale, fatto di prodotti autoctoni della valle e un vino, il Pinerolese Ramìe Doc, è tipico esempio di vino di montagna locale e di limitata produzione. Siamo tra i 600 e i 700 metri s.l.m.
Voglio sottolineare la bontà degli affettati e dei formaggi della casa, tra cui il particolare e curioso Dahü, formaggio a latte crudo, stagionato almeno 2 mesi, in vendita presso pochissimi mercati locali e alcuni agriturismi. Il nome deriva dal Dahü, mammifero della famiglia dei camosci, ossia animale mitologico presente in molte fantasiose leggende della tradizione, dall’inconsueta forma, volutamente “inclinata” (le gambe di un lato più corte/più lunghe di quelle dell’altro). Il formaggio segue un preciso disciplinare, per cui l’alimentazione del bestiame esclude gli insilati, privilegiando i foraggi del territorio. Prodotto in una caratteristica forma con la superficie superiore inclinata, su cui un Dahu starebbe in perfetto equilibrio. Tale caratteristica fornisce al formaggio non solo un aspetto estetico unico, ma la dimensione diversa dello scalzo (lo spessore della forma), fa sì che la stagionatura agisca in modo differenziato e permetta di assaporare diverse sfumature di gusto a seconda della dimensione dello scalzo della porzione che si sta degustando.
E poi, un primo piatto, povero ma pieno di gusto: la “Supa barbetta”, il cui nome deriva dall’usanza di chiamare ‘barbet’ i predicatori valdesi. La zuppaè molto semplice e fatta con ingredienti poveri, come tutta la cucina valdese. Veniva anche consumata in occasione del ‘festin’ del maiale, l’uccisione del maiale. Grissini (senza i grassi), brodo di carne, cannella e noce moscata, parmigiano o toma, burro fresco: piatto delizioso.
Il Bollito misto scopre il sapore di carni dell’allevamento bovino dell’agriturismo: ottimo!
Il Pinerolese Ramìe Doc ha accompagnato le portate, un tipico esempio di vino di montagna, la cui zona di produzione è strettamente limitata ai comuni di Pomaretto e Perosa Argentina.
Il nome deriva dall’omonima area “lî Ramìe”, che nel dialetto locale significa catasta di rami. Risale all’epoca medioevale, quando gli abitanti iniziarono a disboscare i folti boschi per impiantare i vigneti. A supporto dei vitigni realizzarono dei terrazzamenti (i “bari”) sostenuti da muretti in pietra a secco che tutt’ora sopravvivono e caratterizzano il paesaggio e la morfologia del territorio.
Ancora oggi, il rigido disciplinare di produzione, definito a seguito dell’attribuzione della Doc con l’accezione di “Pinerolese” nel 1996, richiede che il vino sia prodotto con la seguente composizione: Avanà, Avarengo, Chatus, Becuet, congiuntamente minimo 60%.
Vino rosso rubino di bella intensità, il Ramìe si fa apprezzare per il suo profilo olfattivo caratteristico, fresco, delicato; profumo ampio di frutti rossi e delicati sentori di spezie . Al palato risulta secco e armonico. Ottimo con i salumi, le zuppe, minestre.
Si raggiungono, faticosamente, i vigneti impervi, quasi verticali, rubati al bosco, accompagnati dal sindaco di Pomaretto, Danilo Breusa, che parla dei segreti di una comunità che crede nella possibilità di vivere in montagna in modo sostenibile e innovativo e che coniuga le attività commerciali e produttive con un turismo attento all’ambiente, alle tradizioni e a peculiarità enogastronomiche, uniche in Piemonte.
Qui, i produttori di vino erano due, ma sono scesi in campo i giovani e oggi sono diventati nove, per una produzione di circa 10.000 bottiglie. Il loro obiettivo? Puntare sui vitigni autoctoni della Valle.
Una bella impresa, auguri!