Incontro nonna Gemma, tra le bottiglie di Barbaresco, di Barolo, di Arneis, di Barbera, in bella mostra, a San Rocco Seno d’Elvio, una piccola frazione di Alba tra i versanti straordinari di Treiso e Barbaresco. Mi trovo nella Cantina Armando Piazzo. Devo intervistare Gemma, vedova del comm. Armando, per farmi raccontare una storia di famiglia, iniziata negli Anni Sessanta e che oggi continua felicemente con la terza generazione, i fratelli Simone e Marco figli di Marina Piazzo e del marito Franco Allario.
Qui si respira, oltre al profumo del vino, aria di bellezza, di benessere, di famiglia unita, di progetti per il futuro. Dalla voce della vispa interlocutrice percepisco un senso di soddisfazione, di gioia, ma anche di attesa consapevole che quello che racconterà porterà ad un tempo lontano, di vita grama su queste colline, di sacrifici e di rinunce, anche di voglia di scappare.
Gemma Veglia ha 87 anni, vive qui da (quasi) sempre e ha vissuto 60 anni della sua vita assistendo alla trasformazione del territorio, della società rurale, della destinazione dei terreni, dalla povertà alla ricchezza. È una memoria storica, ormai. Il suo racconto ci porta lontano, lei parla di emozioni, tante, è come leggere le pagine di un libro dei ricordi, come sfogliare un vecchio album fotografico dove tutto è diventato antico, sentimentale.
Nonna Gemma vive anche lei qui e respira profumi di vini che in passato hanno affrontato la malora, meravigliosi figli di decenni di fatiche, di sacrifici, che hanno obbedito alla passione del vignaiolo.
“Si sono davvero felice, perché vivo qui in famiglia, tutto va bene… poi vedremo! Io provengo da una frazione sulla collina sopra San Rocco, si chiama Madonna di Como che guarda Diano d’Alba e un po’ Rodello. Certo, senza passione, qui non si sarebbe creato niente”.
Questa è una storia di famiglia, di grappoli e di fatica, di lavoro e di speranza. Un racconto contadino, di cascine disperse e di sudori.
“Un tempo, i contadini erano veri contadini, si alzavano prima dell’alba e andavano in vigna. A quel tempo le vigne erano solo di pochissimi filari, le loro mani erano piene di ferite, testimoni di un lavoro duro, usate per guadagnarsi il pane e il salario per la famiglia. Andavano a fare lo “scasso” nel vigneto, per preparare il terreno, e poi rientravano verso le 8 del mattino in cascina per fare un po’ di colazione, tutte le verdure dell’orto per il pinzimonio e poi qualche fetta di salame… e si beveva vino, certo. Poi si tornava a lavorare, con le spalle curve sui tralci”.
Vita di cascina, di lavoro estenuante, di giorno, poi la sera la famiglia si riuniva, si ringraziava con la preghiera, gli uomini giocavano a carte.
“Eravamo una decina di cascine in paese, finché c’era luce gli uomini lavoravano in campagna, poi al loro rientro, la famiglia riunita mangiava e qualche volta ci si riuniva, in una cascina, una volta nell’altra, nella stalla d’inverno, sull’aia d’estate, e si faceva un po’ di festa, ma cose piccole!!! Si condividevano le bugie d’inverno, biscotti, si mangiava pane e salame (chi lo possedeva). Eravamo giovani e vecchi, tutti insieme, le donne più grandi lavoravano ai ferri, gli uomini giocavano alla carte. Ricordo che dalla mia cascina vedevo il campanile della chiesa di Diano d’Alba e un po’ le case di Rodello”.
Ma nei cascinali potevano nascere amori tra giovani di belle speranze. Gli sguardi, la voglia, i desideri… una bella risata di compiacimento appare sul volto di nonna Gemma, anche un po’ imbarazzata.
“Mah, non si pensava neanche agli amori. Di giovani ce n’erano pochi, eravamo quasi tutte femmine. L’unico modo per incontrare qualche giovanotto era l’uscita della messa, la domenica. E poi c’era il Vespro al pomeriggio e lì era papà che decideva chi dovesse andare, almeno uno della famiglia, perché c’era sempre qualche lavoro da portare avanti. C’era magari da falciare il fieno per le bestie, ammucchiarlo, girarlo… quindi solo uno di noi poteva andare al vespro delle quattro”.
Le famiglie dell’epoca erano numerose, quasi tutte contadine da queste parti
“Certo, papà, mamma e 4 figli, 3 sorelle e 1 fratello. Si, coltivavano queste poche ‘giornate’ di terra che avevamo, e poi il maiale, polli, galline, conigli. Servivano per vivere e quando c’era bisogno, il sabato si andava al mercato di Alba a vendere per poi comprare un etto di caffè, di acciughe o di zucchero, ma non tutto in una volta, però. Ricordo che utilizzavamo la terra tra un filare e l’altro per coltivare legumi e cereali che poi papà portava al mercato; però prima doveva servire per sfamare la famiglia. Devo dire che non ci è mancato mai nulla. Per conservare il cibo utilizzavamo un cesto che veniva calato nel pozzo. Tempi difficili… siamo all’inizio degli Anni Quaranta”.
E poi al mercato di Alba a vendere i frutti della terra, a barattare per vivere, per il sostentamento della famiglia. Un tempo difficile.
“Si andava in bicicletta, però io non andavo in quanto avevamo solo una bici. Partiva quasi sempre papà e quando non poteva lui, la mamma. Attaccavano due cesti sul manubrio e quando era il tempo della frutta, si aggiungevano altri cesti sulla sella. La bici si portava a mano perché era carica e si andava giù per lo sterrato. Beh, devo dire che eravamo tutti contenti, nonostante le difficoltà. Ricordo che accanto alla nostra cascina abitava il fratello di mio padre che aveva due figlie. La sera ci si trovava e cantavamo felici. E poi, tutte le sere il Rosario, papà voleva così, mentre ciascuno svolgeva un suo lavoro in famiglia, si pregava in segno di riconoscenza e di ringraziamento, un momento di raccoglimento”.
E venne l’età dell’adolescenza per Gemma, il tempo del lavoro da imparare per guardare al futuro.
“Io ho iniziato molto presto. Prima di andare a scuola, ricordo, andavo sotto i filari a togliere l’erba per i conigli. Lavoravamo solo io e mio fratello, un po’ più grande di me, mentre le altre due sorelle erano ancora piccole. Poi, crescendo, ma ancora giovinetta, sono andata ad imparare il lavoro di sarta, sempre in paese. Allora, il lavoro di sarta andava forte, c’era tanto da fare. Mi è anche capitato di non tornare a casa e di dormire dalla sarta quando c’era bisogno. E non venivo pagata… dovevo solo imparare. Poi, però, mi ha ingaggiata la Vestebene di Alba, la ditta Miroglio e posso dire che qualche soldo cominciai a guadagnarlo”.
Ma il racconto va avanti fino ad arrivare al giorno in cui il cuore batté più forte delle altre volte. Era l’amore che stava arrivando. Armando sta per lanciare le sue frecce e Gemma forse non è ancora preparata, sogna come tante giovinette di fuggire da quei luoghi.
“Armando era il nipote della sorella di mia mamma e la sua nonna era di Madonna di Como. Io avevo 19 anni e Armando 20. Ci siamo conosciuti in paese durante una festa e forse lui si è innamorato per primo, un colpo di fulmine! Lui faceva il contadino, la sua famiglia stava discretamente bene. Ci siamo sposati ne 1958 nella chiesa di Madonna di Como. Di sogni ne avevamo tanti, come tutti quelli della nostra età. Ma molti sono svaniti. Ricordo il primo periodo di matrimonio, non è stato felice per me perché, appena sposati, io sono stata sei anni ospite nella famiglia dei miei suoceri, con due cognati. Avevamo la nostra camera da letto nella cascina, sì, quando non c’erano altri che andavano, ma sono stati anni di sacrifici: l’usanza era questa, non si andava a vivere da soli; ricordo una mia cugina che prima di sposarsi disse al futuro marito ‘se mi porti a vivere ad Alba dai tuoi io non vengo…’ e non si sposarono. Armando, mio marito, lavorava in campagna, io dovevo badare alla casa, un po’ alla sua mamma già avanti negli anni e davo una mano nei campi. Avevamo la stufa, quattro piatti, nessuna comodità. Ad un certo punto ero diventata insofferente, non ne potevo più, ripetevo sempre ad Armando di andare via alla ricerca di una borgata piena di vita”.
Le parole non sempre cadono nel vuoto, Armando è un uomo determinato, con la testa che gli gira parecchio, un uomo d’azione e Gemma lo segue ma…
“Mio marito, al sabato, andava quasi sempre a San Rocco Seno d’Elvio, dove c’era l’osteria, e giocavano alle carte. Una sera torna a casa e, all’una e mezza di notte, mi dice che aveva stipulato un contratto. ‘Un contratto da cioch (ubriaco) risposi io, a quest’ora!’. ‘Ho preso l’osteria, i commestibili a San Rocco’. La bottega vendeva di tutto, dai chiodi agli zoccoli, al tabacco ai grembiuli, alla pasta. Lui aveva trent’anni, aveva fatto tutto questo per andare via dalla casa dei suoi, ma non lontano perché lavorava sempre lì. Io ero d’accordo, un po’ si un po’ no; ricordo che era di maggio quando siamo andati via da quella abitazione e non mi sono più girata indietro per guardarla… a San Rocco in negozio e in osteria ci stavo io che avevo già le bambine, e poi badavo al forno per fare il pane assieme al garzone”.
La storica Osteria Italia
“Sempre Osteria Italia, come si chiama adesso. Io cucinavo; durante la settimana, entravano poche persone, preparavo i tajarin, i ravioli, facevo il pollo, il coniglio, vendevo le acciughe. Tutta roba della nostra campagna. Lavoravo dal mattino alla sera, e poi le due bambine da accudire, però ricordo che a San Rocco c’era una bella comunità di persone e ci si dava una mano tutti. Cominciavamo a stare bene”.
Armando aveva la stoffa dell’imprenditore
“Con la gestione dell’Osteria e dei Commestibili, mio marito aveva dimostrato di guardare lontano; gli affari cominciavano ad andare bene e lui, che non sapeva stare con le mani in mano e con la mente ferma, ha cominciato a comprare, ad investire in attività agricole. La prima operazione che ha portato a termine è stato l’acquisto di un caseggiato qui, dove ci troviamo adesso e un pezzo di vigna da due fratelli. Noi non avevamo niente, nessun soldo, eravamo nel 1969, e abbiamo dovuto stipulare un mutuo di quaranta milioni con la Banca. Cosa fare? Quale garanzia potevamo dare?”
La prima casa di proprietà, la prima vigna e le mucche come garanzia per la Banca
“Armando aveva un amico commerciante di bestie… ci siamo fatte prestare 10 mucche, qui c’era la stalla, l’abbiamo allestita col fieno per far credere che fosse una nostra attività. Non so quale stratagemma inventò mio marito col suo amico, un po’ di imbroglio che funzionò. Che io fossi felice di questa scelta? Beh, all’Osteria non potevo più stare, le bambine crescevano, mio fratello e le mie due sorelle ancora da sposare mi avevano dato un po’ di aiuto dapprima, ma poi ognuno ha fatto la sua strada. Dopo ha preso tutta la collina di là… erano sei padroni e sei appezzamenti. Armando ha fatto spianare e ha piantato altra vigna”.
Tutto è partito da quelle 10 mucche prestate
“Si tutto quello che si vede adesso è frutto di quelle dieci mucche prestate, perché dopo la verifica della Banca, quelle mucche, il giorno dopo, avevano ripreso la strada del ritorno, tanto cosa ne facevamo di quelle… per la carità!”
E dagli Anni ’70 il progresso
“Si, sempre sacrifici, certo si era migliorati, le mani rimanevano sempre nella terra, la casa nuova non aveva ancora né luce né acqua, solo un piccolo pozzo… andavo tutti i giorni ad Alba a prendere tre operaie e le portavo su, accompagnavo le bambine a scuola, poi preparavo da mangiare per i lavoratori, allora usava così. Tutto aveva un ritorno, ma la vita era molto sacrificata”.
I ricordi di Gemma sono vivi, ha ripercorso la sua vita in un’ora. La figura di Armando, genio dell’imprenditoria agricola di quel tempo, e del suo carattere sono rimasti intatti nella mente. Ma se potesse risalire sul treno della vita, chissà, si fermerebbe di nuovo a tutte le fermate?
“Io ho passato con Armando una bella vita, ma perché mi accontentavo. Lui ha sempre avuto il desiderio del comprare… Mio marito andava sempre in giro e ha sempre acquistato piccoli pezzi di terra, anche al di fuori di questo territorio, e poi c’era sempre un vicino che vendeva e allora lì ancora a comprare. Abbiamo sempre vissuto tra prestiti, cambiali, mutui… Certo, adesso quella vita è scomparsa, non si può fare più. Però, risalendo su quel treno a vapore starei affacciata al finestrino, mi piacerebbe osservare, non vorrei scendere per partecipare. Mi definisco, però una donna fortunata”.
Lunga vita a nonna Gemma.