Nella forma ricordano dei copricapi medievali essendo caratterizzati da una fascia imbottita e una punta protesa in avanti. Sono i cappelletti, una delle delizie culinarie della Romagna. Che non hanno niente a che vedere con i tortellini bolognesi. Soprattutto nella forma che è determinata dalla lavorazione. Partendo dal presupposto che la pasta deve essere tirata al mattarello, i tortellini sono chiusi attorno al mignolo (a Modena attorno all’indice), il cappelletto invece viene chiuso direttamente unendo le due estremità del triangolo, vanno poi sovrapposte e schiacciate con le dita per saldarle. L’ultimo passaggio è girare le due punte verso l’alto.
Sul ripieno dei caplèt invece si apre un mondo. In Romagna da sempre esiste una diatriba che cambia non solo in base alla zona, ma addirittura di famiglia in famiglia. La differenza sostanziale è fra quelli di magro (formaggi, uova e noce moscata) e di grasso, al formaggio si unisce la carne. Sia essa lonza, vitello, petto di pollo o mortadella.
Questa la ricetta di Pellegrino Artusi: ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 200; 150 grammi di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta; parmigiano reggiano grattato, grammi 30; uova, uno intero e un rosso; 5 grammi di noce moscata; 30 grammi di scorza di limone a chi piace; 5 grammi di sale; 5 grammi di pepe.
C’è anche una ricetta codificata, è quella imolese che l’Accademia italiana della cucina ha depositato alla Camera di Commercio di Bologna: 300g Braciola lombo maiale con osso; 250g petto di cappone; 200g Mortadella Bologna IGP; 300g Formaggio Parmigiano Reggiano 24 mesi; 3 tuorli; noce moscata q.b.; olio di oliva extra vergine q.b.; sale e pepe q.b.
Secondo la tradizione, vengono serviti in brodo. Il più blasonato è quello di cappone. Ma ci sono anche quelli asciutti, con vari condimenti, il più diffuso è il ragù di carne col quale però si corre il rischio di coprire il sapore del cappelletto che invece è valorizzato proprio dal brodo.
L’origine pare sia da far risalire al Cinquecento e più in particolare a Cristoforo di Messisbugo e Bartolomeo Scappi. I due cuochi della corte estense furono i primi a citare i cappelletti come ricetta. Ma la prima testimonianza ufficiale dei cappelletti romagnoli è datata 1811 quando il Regno d’Italia promosse un’indagine sulle tradizioni, le usanze, i dialetti e le superstizioni degli abitanti delle campagne. Vennero utilizzate informazioni fornite da sacerdoti, insegnanti e podestà. E il prefetto di Forlì fece un rapporto finale in cui si faceva accenno ai cappelletti.
by Davide Buratti condiviso, con EmiliaRomagnaVini Magazine